Ramon Mantovani racconta la vicenda che portò il Presidente Abdullah Ocalan a Roma e la cospirazione che produsse il suo sequestro.

Posted in articoli pubblicati sulla carta stampata ed altri siti with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 26 febbraio, 2024 by ramon mantovani

Intervista rilasciata a Serkan Demirel della Firat News Agency in occasione del 25° anniversario del sequestro del Presidente Abdullah Ocalan.

– Da amico dei curdi, lei accompagnò il leader curdo Abdullah Öcalan sull’aereo dalla Russia all’Italia. In quel momento lei era membro della Commissione Affari Esteri italiana. Il governo italiano era a conoscenza di questa situazione? Öcalan venne in Italia su invito? Può raccontarci un po’ come si andò sviluppando questo processo?

Il mio partito (Partito della Rifondazione Comunista) fin dalla sua nascita nel 1991 era ed è sempre stato solidale con la causa kurda.

Un anno prima del suo arrivo in Italia il PKK mi contattò per chiedermi di sviluppare una qualche iniziativa parlamentare, utile ad appoggiare un nuovo corso della lotta kurda consistente in un cessate il fuoco unilaterale e nella prospettiva di una trattativa per risolvere il conflitto con un negoziato di pace.

Il 10 dicembre 1997 la Commissione Esteri della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana votò una mia risoluzione, discussa e firmata anche da altri deputati di altri gruppi politici, ed unificata nella parte dispositiva con un’altra risoluzione del gruppo di Alleanza Nazionale, della quale accettai di inserire nella mia solo l’ultimo punto riguardante la prospettiva di uno stato indipendente kurdo. Vale la pena di ricordare che, dal punto di vista costituzionale, in Italia una risoluzione approvata da una Commissione o dall’Assemblea di Camera dei Deputati o Senato è un documento che rappresenta la posizione ufficiale del Parlamento che è l’organo supremo della sovranità popolare. Il Governo ha il dovere di attenersi nella sua attività esecutiva alle indicazioni contenute nella parte dispositiva delle risoluzioni.

Quindi, per la prima (e purtroppo unica) volta uno stato dell’Unione Europea prendeva posizione sulla vicenda kurda denunciando l’esistenza di un conflitto armato, le violazioni del diritto internazionale con gli sconfinamenti dell’esercito turco in Iraq, le violazioni dei diritti umani delle popolazioni kurde, e indicava al proprio governo di intraprendere iniziative per arrivare a una soluzione politica e negoziata del conflitto.

Poche settimane dopo l’approvazione della risoluzione lo stesso Ministro degli Interni di allora, Giorgio Napolitano, rispondendo alle proteste del Gruppo di Forza Italia per il rilascio, da parte delle autorità italiane, dello status di rifugiati a cittadini kurdi con passaporto turco, disse di essere tenuto a farlo in conseguenza della approvazione della risoluzione della Commissione Esteri.

Qualche tempo dopo e in seguito a questa iniziativa, che ovviamente fu salutata dal PKK come un grande successo, il Presidente Ocalan mi fece sapere di essere interessato ad incontrare una delegazione del nostro partito.

Nel settembre del 1998 una delegazione composta da me, dal deputato Walter De Cesaris e dal Responsabile per i Processi di Pace del Dipartimento Esteri del partito Alfio Nicotra, incontrò il Presidente Ocalan in Medio Oriente.

L’incontro fu importante per noi e per Ocalan perché verificammo che le nostre relazioni potevano andare ben oltre la tradizionale solidarietà fra forze politiche di sinistra. Scoprimmo di avere lo stesso interesse e preoccupazione per le novità negative della globalizzazione capitalistica, di pensare che le forze rivoluzionarie dovevano pensare ed agire unitariamente nel mondo e non limitarsi a rapporti di semplice solidarietà, di considerare la pace e la soluzione negoziata dei conflitti armati nel mondo come l’unico modo per affrontare e risolvere le controversie internazionali, ed  anche interne a paesi che non riconoscevano l’esistenza e i diritti delle proprie minoranze nazionali. Soprattutto fummo d’accordo nel rilevare che avevamo un problema in comune. L’eventuale entrata della Turchia nella UE senza la soluzione del conflitto con il popolo kurdo avrebbe ancor più accentuato la natura ademocratica e tecnocratica della UE e viceversa la prospettiva di un processo di pace in Turchia sarebbe stata rafforzata come condizione previa dell’ingresso della Turchia nella UE.

L’incontro fu reso pubblico dal quotidiano del mio partito “Liberazione” che ne diede ampio risalto.

– Cosa accadde durante il suo incontro con Öcalan e di quali temi discusse con lui sull’aereo? Quale fu, secondo lei, la ragione della visita di Öcalan in Europa?

 

Io seppi della espulsione dalla Siria del Presidente Ocalan dalla stampa internazionale. Poco tempo dopo, dal Partito Comunista della Federazione Russa, fui informato della presenza di Ocalan in Russia e della possibilità che la Duma discutesse del caso e deliberasse in favore della concessione dell’asilo politico.

Non seppi più nulla fino alla tarda serata del 10 novembre 1998 quando fui informato, da dirigenti kurdi presenti in Italia, che il Presidente Ocalan si trovava in pericolo in Russia in quanto una parte del governo e una parte degli apparati di intelligenza avevano intenzione di consegnarlo alla Turchia. E mi dissero che il Presidente aveva deciso di venire in Italia sebbene avesse anche altre alternative, sia perché il Parlamento italiano aveva avuto la posizione più avanzata sulla questione kurda, sia perché voleva lanciare un appello e una proposta di negoziato di pace proprio in un paese della UE, della NATO e con una importante tradizione di promozione e coinvolgimento in processi di pace.

Noi ci adoperammo immediatamente per aiutare il Presidente a raggiungere il suo obiettivo di venire in Italia e di ottenere lo status di rifugiato politico. Evidentemente sondammo e ci rivolgemmo a tutte le istituzioni e apparati in qualche modo utili per far si che tutto avvenisse nel miglior modo possibile.

Sui nostri contatti istituzionali in Italia e con altri paesi non darò maggiori dettagli.

Non era semplice, per moltissimi motivi. La Turchia avrebbe protestato e preso rappresaglie, come del resto già aveva fatto per l’approvazione della risoluzione all’inizio dell’anno. Esisteva un mandato di cattura internazionale contro Ocalan della Germania, oltre a quelli turchi. E fu chiaro fin dall’inizio che appena giunto in Italia il Presidente sarebbe stato arrestato in ragione soprattutto del mandato di cattura tedesco e che l’Italia alla richiesta della Germania di estradizione avrebbe dovuto rispondere positivamente.

Nonostante tutte le difficoltà, che furono molte, riuscimmo a preparare le condizioni affinché il Presidente viaggiasse in Italia.

Alla fine io, accompagnato da un dirigente kurdo, mi recai a Mosca dove incontrai nello stesso aeroporto il Presidente Ocalan, in un sotterraneo di uffici militari presidiato da agenti dell’intelligenza russa. Gli spiegai la situazione italiana e quello che sarebbe successo. Sarebbe stato arrestato ma non tradotto in carcere bensì in un ospedale per i problemi di salute che aveva, e in pochissimi giorni, come da prassi, un magistrato lo avrebbe messo sicuramente in libertà in attesa di una eventuale richiesta di estradizione della Germania. Ovviamente gli dissi, se aveva altre alternative, di considerarle perché per quanti sforzi avessimo fatto, essendo l’Italia un paese a sovranità di fatto limitata, le pressioni della Turchia sugli USA e sull’Italia, notoriamente subalterna agli USA, avrebbero potuto determinare situazioni impreviste in qualsiasi momento.

Lui mi disse di essere determinato a venire in Italia, anche avendo altre alternative, perché voleva trasformare una difficoltà in una opportunità, proprio venendo in un paese come l’Italia, sede anche del Vaticano e per questo conosciuto molto bene in tutto il mondo, per lanciare la proposta del negoziato di pace, senza più indicare in uno stato indipendente kurdo l’obiettivo di una eventuale trattativa. Aggiunse che non aveva problemi ad essere estradato in Germania, in quanto valutava che le accuse mosse contro di lui fossero del tutto inconsistenti e che avrebbe avuto ragione in qualsiasi processo.

Così prendemmo il primo volo per Roma.

Sull’aereo parlammo di politica. Gli spiegai la nuova situazione italiana, con un governo presieduto da D’Alema in quanto il precedente guidato da Prodi era caduto proprio per la rottura fra noi e il governo, e della nostra opposizione al nuovo governo. Ma parlammo anche di cose meno importanti e amene come il calcio italiano e turco.

Un dettaglio importantissimo, come avrò modo di spiegare più avanti, furono le mie indicazioni su cosa fare all’arrivo. Dissi che la cosa migliore sarebbe stata la seguente: il Presidente, con la sua segretaria e il kurdo che aveva viaggiato con me e che parlava italiano, avrebbe dovuto dirigersi al passaggio della frontiera riservato ai diplomatici, e identificarsi chiedendo l’asilo politico. Gli altri che lo accompagnavano (4 o 5 persone in tutto) e il sottoscritto avremmo passato il posto di frontiera normale. Io non avrei accompagnato il Presidente al passaggio diplomatico, pur avendo un passaporto di servizio come deputato, perché avevamo valutato che tutto il nostro ruolo come partito nella vicenda rimanesse riservato, al fine di evitare che la rilevanza della presenza in Italia e il messaggio di pace del Presidente passasse in secondo piano per le piccole polemiche provinciali della politica italiana che sicuramente si sarebbero accese se si fosse saputo del nostro coinvolgimento.

Tutto andò come avevamo previsto. Il Presidente chiese l’asilo, fu arrestato e venne condotto via da un nugolo di poliziotti, insieme alla sua segretaria e al kurdo che aveva fatto da traduttore. Fu portato in un ospedale fuori Roma. Venne assistito da due importanti avvocati (Giuliano Pisapia e Luigi Saraceni, entrambi Deputati della Repubblica Italiana), e pochi giorni dopo un magistrato lo mise a piede libero. L’ufficio dei kurdi in Italia con l’aiuto dei servizi di intelligenza italiani, dati i problemi di sicurezza che ci sarebbero stati, affittò una villetta nella periferia romana che poi sarà la residenza di Ocalan fino alla sua partenza, presidiata dal massimo schieramento dei corpi speciali italiani, che installarono perfino strumenti per sventare un attentato con missili.

– Quale fu l’atteggiamento dell’allora Primo Ministro italiano Massimo D’Alema nei confronti della venuta di Öcalan in Italia? Cosa accadde a livello diplomatico durante la permanenza di Öcalan in Italia?

 

Il Presidente del Governo Italiano tenne una posizione che possiamo definire fredda e distante nei confronti di Ocalan e più in generale della causa kurda. E questo è comprensibile data la collocazione internazionale dell’Italia e i grandi scambi commerciali con la Turchia, soprattutto nel settore militare essendo l’Italia un fornitore di primo piano per la Turchia. Difese in un dibattito parlamentare, rispondendo agli attacchi dei partiti di destra, la correttezza e la legalità dell’operato delle istituzioni italiane, che avevano arrestato Ocalan in quanto inseguito da un mandato di cattura tedesco e che avevano preso atto della sua richiesta di asilo formulata al momento dell’arresto. Ma non disse una cosa che scoprimmo solo diverse settimane dopo quando io ricevetti un avviso da parte della magistratura come indagato per il reato di favoreggiamento di ingresso clandestino. Il verbale di polizia relativo all’arrivo di Ocalan era falso. C’era scritto che Ocalan aveva tentato di passare la frontiera con un documento falso e che, riconosciuto, era stato arrestato. Io venni poi prosciolto dall’accusa per il semplice motivo che nell’interrogatorio che mi fecero spiegai che il Presidente Ocalan nell’aeroporto si era rivolto al passaggio dei passaporti diplomatici, accompagnato dalla sua segretaria e da un kurdo residente in Italia, e che un simile comportamento era assolutamente incompatibile con il tentativo di passare la frontiera con documenti falsi. E chiesi io ai magistrati di verificarlo attraverso la visione dei video registrati dalle telecamere della sicurezza dell’aeroporto. Con mia sorpresa il magistrato che mi interrogava concluse l’interrogatorio dicendo di credermi anche perché le registrazioni delle ore dell’arrivo nostro all’aeroporto erano “misteriosamente” sparite.

Tutto questo per dire che il Presidente del Governo Massimo D’Alema si comportò in modo gravemente scorretto dal punto di vista istituzionale, visto che l’ordine di falsificare i verbali relativi all’arrivo di Ocalan, anche se non fu emanato ufficialmente da lui non poteva essergli ignoto. E se il capo del governo fosse stato tenuto all’oscuro di una simile violazione della legalità avrebbe, una volta appresa la verità, dovuto individuare e perseguire eventuali funzionari dello stato infedeli alla Repubblica Italiana ed obbedienti a servizi stranieri. Cosa che ovviamente non avvenne mai.

 

– Crede che ci furono pressioni sul governo italiano per ottenere l’estradizione di Öcalan dall’Italia? Quali furono i paesi che esercitarono tale pressione politica sull’Italia?

 

Il governo della Turchia presieduto da Ecevit cancellò numerose commesse militari e civili per valore di miliardi di euro, richiamò l’ambasciatore per consultazioni, scatenò una campagna contro l’Italia e contro il governo italiano. E chiese l’estradizione di Ocalan in Turchia.

Mi risulta che riservatamente ma anche pubblicamente D’Alema insistette molto con la Germania affinché richiedesse l’estradizione di Ocalan. Cosa che la Germania non fece mai.

Il governo degli USA per bocca della Segretaria di Stato Madeleine Albright chiese pubblicamente all’Italia di estradare Ocalan in Turchia. Oltre ad essere una gravissima ingerenza in affari che non riguardavano gli USA ma solo Italia e Turchia, questa richiesta era ancor più grave perché si chiedeva al governo italiano di violare le leggi del proprio paese, che impediscono di estradare un detenuto in un paese dove può essergli comminata una condanna alla pena di morte. Cosa che il governo degli USA non poteva ignorare anche per il solo fatto che mai, e si tratta di diversi casi, l’Italia ha soddisfatto la richiesta di estradizione di cittadini statunitensi passibili di una condanna a morte negli USA, proprio per questo motivo. Se si arrivò al punto di fare pressioni pubbliche di questo tipo si può immaginare quali e quante ne furono fatte riservatamente. Una di queste fu far emergere la notizia della mia attività per la venuta in Italia del presidente Ocalan. Furono servizi di intelligenza americani a far uscire in Grecia la notizia secondo la quale sull’aereo con Ocalan c’erano un deputato italiano e due deputati greci. Notizia falsa perché c’ero solo io ma abbastanza utile a far si che la stampa italiana si scatenasse alla ricerca del “colpevole”. Pochi mesi prima il quotidiano del mio partito aveva pubblicato un resoconto degli incontri nostri con Ocalan in Medio Oriente con tanto di fotografie e diversi giornalisti cominciarono a tentare di ottenere da me o dal partito conferma dei loro sospetti. Inoltre io venni informato da un deputato della destra che Silvio Berlusconi aveva indetto una conferenza stampa su argomenti di politica interna, nel corso della quale avrebbe indicato in me il “colpevole” di aver “portato” in Italia un terrorista (il PKK al tempo non era nemmeno sulla lista di organizzazioni terroristiche della UE), di aver prodotto un gravissimo danno economico al paese e di aver creato una grave crisi diplomatica fra due paesi alleati come Italia e Turchia. Perciò il 25 novembre 1998 fui costretto a convocare una conferenza stampa prima di Berlusconi nella quale dissi che effettivamente avevo, su sua richiesta, aiutato Ocalan a venire in Italia per chiedere asilo, proclamare un cessate il fuoco unilaterale e proporre un negoziato di pace alla Turchia. Come era prevedibile si scatenò la solita rissa pseudopolitica e la stragrande maggioranza dei giornali e tv dissero che io avevo “portato” Ocalan in Italia per danneggiare il governo, il paese e così via. Una volta tanto D’Alema disse una cosa del tutto condivisibile. Dichiarò “Ocalan non mi sembra una persona che si fa portare”. Come dargli torto! Il leader di un popolo di decine di milioni di persone, capo di una guerriglia che dall’inizio degli anni 80 aveva tenuto testa all’esercito più forte della NATO dopo quello USA, secondo moltissimi giornalisti italiani ed esponenti dei partiti di destra ed anche del centrosinistra, tanto ignoranti quanto faziosi, si sarebbe fatto “portare” dal sottoscritto in Italia per far dispetto al governo!

 

– Öcalan fu costretto ad abbandonare l’Italia nonostante la sua richiesta di asilo politico. Successivamente venne arrestato in Kenya. Nelle dichiarazioni che seguirono al suo arresto, Öcalan lo descrisse come frutto di una cospirazione internazionale contro di lui. Cosa ne pensa?

 

Non c’è dubbio che numerosi soggetti, a cominciare da potenze come gli USA, multinazionali interessate a continuare lo sfruttamento delle risorse del Kurdistan, partiti politici amici della Turchia (non bisogna dimenticare che Ecevit era a capo di un partito dell’Internazionale Socialista), grandi industrie pubbliche e private di armamenti che avevano la Turchia come cliente importante ecc. agirono, anche collaborando fra loro, per evitare che la proposta di pace del PKK diventasse praticabile. Da questo punto di vista sono completamente d’accordo con il Presidente.

Per quanto riguarda l’Italia le pressioni pubbliche e riservate del governo USA di cui ho parlato prima vennero accompagnate da pressioni sul governo D’Alema provenienti dai più alti vertici degli apparati di sicurezza italiani più fedeli agli ordini degli USA che a quelli del proprio governo. Io ne ebbi notizia ma ovviamente lo so per voce di politici ed anche di esponenti del governo italiano che ovviamente me lo dissero riservatamente. Chiunque conosca bene la storia della Repubblica Italiana sa, come è stato provato in diversi processi penali, che apparati dello stato parteciparono in collaborazione con la CIA negli anni 60 70 ed anche 80 alla preparazione e copertura di attentati terroristici tesi a impedire l’ascesa del Partito Comunista Italiano al governo. Non c’è quindi da meravigliarsi che anche in questa circostanza la CIA abbia usato i “suoi” uomini ai vertici degli apparati di sicurezza italiani.

Dopo le pressioni che ricevette il governo italiano gli uomini che mantenevano relazioni con Ocalan per conto del governo D’Alema esercitarono numerose pressioni direttamente su Ocalan per fargli lasciare il paese. Lo fecero dicendo una cosa vera. E cioè che un minuto dopo che l’Italia avesse risposto negativamente alla richiesta di estradizione in Turchia, in forza di un trattato di collaborazione contro il terrorismo fra Italia e Turchia stipulato negli anni 70 e mai revocato dopo il colpo di stato in Turchia del 1980, un qualsiasi giudice italiano avrebbe potuto arrestare Ocalan e sottoporlo a processo con le accuse che gli rivolgeva la magistratura turca. E lo fecero perfino minacciando di togliergli la protezione che era stata organizzata dai corpi speciali delle forze di polizia italiane.

Per quanto riguarda l’arresto e l’eventuale processo gli avvocati sostennero che con le accuse generiche e senza l’addebito di nessun fatto di sangue specifico e personale, la libertà provvisoria e l’assoluzione nel processo sarebbero stati cosa certa. Per quanto riguarda le minacce di ritiro della protezione io spiegai che si trattava di un bluff perché se l’avessero fatto lo avremmo denunciato pubblicamente e qualsiasi cosa fosse successa ad Ocalan avrebbe portato in tribunale e poi in prigione i responsabili.

Io parlai a lungo con il Presidente spiegandogli, come gli avvocati, che l’arresto sarebbe stato breve e che il processo sarebbe stato favorevole all’assoluzione. Non mi permisi di dare consigli sia perché era decisione che spettava unicamente ad Ocalan e al PKK. Ma anche se mi fosse stata chiesta una opinione diretta non avrei potuto darla non conoscendo le eventuali alternative alle quali il PKK aveva sicuramente lavorato. Ma comunque fu una lunga discussione nel corso della quale Ocalan insistette su una cosa che gli fa molto onore. Prima della sua sicurezza e salvezza personale egli metteva in rilievo il fatto che un eventuale suo arresto, e quindi insuccesso della proposta di negoziato, sarebbe stato interpretato dal popolo kurdo come una sconfitta definitiva e avrebbe alimentato certamente tendenze e azioni disperate. Per questo era orientato a lasciare l’Italia e a cercare una alternativa. Dopo il mio colloquio con il Presidente esponenti di primo piano del PKK, mi chiesero un incontro nel quale mi dissero che, dati i nostri rapporti fraterni, mi facevano sapere che il PKK propendeva per far restare il Presidente in Italia, fermo restando che l’ultima parola sarebbe stata la sua. A quel punto dissi loro che se lo ritenevano utile potevano dire al Presidente che anche il mio partito pensava come il PKK che la cosa migliore era la sua permanenza in Italia.

Quel che è successo dopo la partenza del Presidente sollecitata e favorita dal Governo D’Alema io lo so solo perché mi è stato riferito da dirigenti del PKK in seguito, ma non abbiamo né io né nessuno del mio partito partecipato in alcun modo.

Mi risulta che il Presidente sia tornato in Russia sulla base della notizia, evidentemente infondata, che dopo la sua permanenza in Italia e la rilevanza conquistata dalla causa kurda presso l’opinione pubblica internazionale, si erano create le condizioni per la concessione dell’asilo e un appoggio alla sua proposta di negoziato. Ma invece dovette di nuovo abbandonare la Russia per sfuggire al pericolo di vita o di cattura. Dopo una breve peregrinazione ci fu un accordo con il governo greco secondo il quale sarebbe stato ospitato in un paese terzo nella ambasciata greca sotto la protezione diplomatica e in un tempo non precisato gli sarebbe stato concesso l’asilo. Effettivamente il Presidente raggiunse l’ambasciata greca in Kenia e fu ospitato come previsto godendo della extraterritorialità della legazione diplomatica. Questo lo so direttamente perché Giuliano Pisapia, che allora era responsabile giustizia del mio partito oltre che avvocato di Ocalan, ebbe modo di andare a Nairobi e di parlare con lui nell’ambasciata. Ma improvvisamente, il 15 febbraio 1999, il governo greco ordinò all’ambasciatore di espellerlo dall’ambasciata. Ad attenderlo fuori c’era, secondo quanto mi è stato riferito, un commando di agenti dei servizi segreti turchi e di un altro paese che lo sequestrarono illegalmente e lo trasportarono, nel modo che il mondo ha conosciuto attraverso le immagini drammatiche, in Turchia. Per questi avvenimenti ben tre ministri greci che avevano favorito l’operazione dovettero dimettersi. Tra loro i ministri di esteri ed interni.

 

– Pensa che il governo italiano dell’epoca sia stato responsabile, insieme ad altri paesi, dell’arresto di Öcalan? Se il governo italiano lo avesse voluto Öcalan sarebbe potuto rimanere in Italia o cosa si sarebbe potuto fare per poterlo fare restare in Italia?

 

Penso che l’Italia in particolare, date le circostanze della venuta di Ocalan a Roma, e più in generale l’Unione Europea, abbiano la gravissima responsabilità di non aver favorito e lavorato per la soluzione politica del conflitto che da più di 40 anni insanguina il Kurdistan. Al contrario su indicazione degli USA e della stessa Turchia il PKK è stato messo, senza nessuna discussione parlamentare o nemmeno intergovernativa (l’Italia non poteva accettarla data la posizione fissata dalla risoluzione di cui ho parlato prima), nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dopo gli attentati di Al-Qaeda a New York. Con il paradosso che l’unica organizzazione che ha combattuto davvero in Siria contro l’ISIS è perseguitata in Europa su indicazione di un paese come la Turchia che certamente non ha fatto nulla contro l’ISIS. La qual cosa dimostra la vera natura dell’attuale Unione Europea.

Il governo D’Alema ha avuto l’occasione di adoperarsi per un processo di pace e di sviluppare una politica estera che dovrebbe essere congeniale all’Italia data la sua posizione storica nel mediterraneo. Il dialogo e la trattativa erano e sono possibili. Tanto che negli anni 2000 ci sono stati approcci e negoziati fra il PKK e il governo di Erdogan, che ovviamente sono falliti soprattutto per il ruolo che i militari turchi hanno costituzionalmente e per il loro peso politico. Credo perfino che il tentativo di colpo di stato del 2016, con conseguente epurazione di parte dei vertici delle forze armate in Turchia, abbiano a che fare anche con l’atteggiamento ad un certo punto possibilista del governo Erdogan per una trattativa con lo stesso Ocalan. Ma anche D’Alema, come avrebbe fatto Prodi (Romano Prodi mi disse personalmente che con lui presidente del governo Ocalan non avrebbe mai messo piede in Italia, e io gli risposi che avevo un motivo in più per aver votato contro la fiducia al suo governo facendolo cadere) preferì obbedire agli USA e rinunciare a fare dell’Italia un paese utile all’umanità nella promozione della pace e del disarmo nel mondo invece che un paese asservito agli USA e avido di profitti nel commercio delle armi.

Va anche ricordato che nell’imminenza della partenza del Presidente Massimo D’Alema ed Oliviero Diliberto (ministro di giustizia) dissero in due dichiarazioni ad agenzie di stampa che il governo non era competente per concedere l’asilo politico e che solo la magistratura avrebbe potuto farlo. Si tratta dell’ennesima menzogna. Tutti sanno che normalmente, come nel caso di Ocalan, i governi offrono l’asilo e la protezione e solo in seguito ed eventualmente si accenda una controversia se ne occupa la magistratura. Inoltre pochissime ore dopo le dichiarazioni di D’Alema e Diliberto altri tre ministri in altrettante dichiarazioni dissero una cosa ben diversa che in parte smentì i primi due. E cioè che il governo non doveva concedere l’asilo. Strano che il Ministro degli Esteri (Lamberto Dini), quello della Difesa (Carlo Scognamiglio) e quello del Commercio con l’Estero (Piero Fassino, per giunta dello stesso partito di D’Alema) abbiano sentito il bisogno di dire che il governo era competente e non doveva concedere l’asilo. Nessun giornalista italiano né della carta stampata né delle TV di solito molto attenti a raccogliere pettegolezzi e ad evidenziare i contrasti tra politici se ne accorse. Davvero molto strano.

In ogni caso qualche mese dopo la partenza del Presidente dall’Italia il Tribunale di Roma concesse lo status di rifugiato politico ad Ocalan nonostante il governo D’Alema avesse istruito l’Avvocatura dello Stato a sostenere nel processo la negazione dell’asilo. Il che mette in evidenza ancora una volta la qualità democratica del Sig. D’Alema e del suo governo e il fatto che se Ocalan fosse rimasto in Italia avrebbe potuto esercitare pienamente i suoi diritti civili e politici.

– Da 3 anni a questa parte non si sono più avute notizie di Abdullah Öcalan, detenuto nella prigione di Imralı da 25 anni. Lo Stato turco, che ha privato Öcalan di tutti i suoi diritti, gli ha imposto un regime di pesante isolamento. Che valutazione dà di questo isolamento?

 

Il governo turco ha paura di Ocalan che è tutt’ora il leader indiscusso del popolo kurdo. L’isolamento e il trattamento carcerario disumano dimostrano la natura fascista dello stato turco. La mobilitazione internazionale per la liberazione di Ocalan deve estendersi ed aumentare in ogni parte del mondo. Per quanto forte sia lo stato turco e per quanto venga sostenuto dagli USA e nei fatti anche dalla UE la ragione sta dalla parte del popolo kurdo e del Presidente Ocalan.

– Cosa direbbe del ruolo di Öcalan nella risoluzione della questione curda?

 

Il Presidente Ocalan è indispensabile possa svolgere un ruolo politico da uomo libero per la soluzione negoziata del conflitto. Come fu indispensabile la liberazione di Nelson Mandela per avviare il processo di fine dell’apartheid e la democratizzazione del Sudafrica. Se c’è oggi al mondo un vero leader all’altezza di Nelson Mandela questi è proprio il Presidente Abdullah Ocalan. La sua liberazione può mettere fine al conflitto e inaugurare un processo di pace con il coinvolgimento di paesi che hanno la capacità e la credibilità politica e morale per svolgere una funzione di accompagnamento ed eventualmente di mediazione.

Il pensiero politico, gli scritti e le idee di Ocalan sono un contributo non solo alla causa kurda ma anche a tutta la sinistra mondiale e a tutti i popoli liberi o in lotta per la propria libertà. La rivoluzione femminile, il confederalismo democratico e la critica della concezione egemone nel mondo dello stato, due teorie che vivono nell’esperienza di massa delle popolazioni del Rojava sono interessanti universalmente. Tutte le forze rivoluzionarie e progressiste del mondo dovrebbero studiarle a fondo.

 Pubblicato sul sito http://www.rifondazione.it il 22 febbraio 2024

 

Nuovo governo in Spagna

Posted in articoli pubblicati sulla carta stampata ed altri siti with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 novembre, 2023 by ramon mantovani

Il 16 novembre il Congreso de los Diputados ha “investido”, e cioè eletto, Presidente del Governo il socialista Pedro Sanchez.

I voti sono stati 179 a favore e 171 contrari. Nessun astenuto.
Hanno votato a favore il PSOE (121). Sumar,(31). Esquerra Republicana de Catalunya,(7). Junts per Catalunya,(7). EH-Bildu,(6). Partito Nazionalista Basco,(5). Bloque Nacionalista Galego,(1). Coalicion Canaria,(1).
Hanno votato contro il Partido Popular,(137). VOX,(33). Union Pueblo Navarro,(1).

Il nuovo Presidente del governo ha giurato sulla costituzione davanti a un Re insolitamente cupo in volto e lunedì 20 novembre mattina ha comunicato la composizione del nuovo governo che, secondo il sistema istituzionale spagnolo, non dovrà essere sottoposto a un voto di fiducia in parlamento.

Le settimane che hanno seguito le elezioni del 23 luglio non sono state “normali”.
Il PP, dopo aver tentato con la complicità del Re una “investidura” senza avere nessuna possibilità di successo, ha usato insistentemente, contro il possibile nuovo governo, tre argomenti che meritano di essere analizzati a fondo.

Il primo è: il PP ha vinto le elezioni. Questo argomento, che può apparire ridicolo, in Spagna non lo è per niente. Il corpo elettorale è abituato da decenni a leggere i risultati elettorali attraverso i seggi e non attraverso i voti e a vedere formare un governo dal partito che ha avuto una maggioranza relativa di voti, per poi stare al governo da solo anche senza maggioranza assoluta dei voti parlamentari.
In effetti il governo Psoe-Unidas Podemos è stato il primo governo di coalizione dalla morte del dittatore ad oggi.
Il bipartitismo, favorito da un sistema elettorale proporzionale in ogni provincia ma senza ricalcolo proporzionale dei resti in un collegio nazionale, è entrato in gravi difficoltà con le conseguenze del disastro della crisi del 2008 e con l’applicazione delle politiche di austerità, tanto da parte del PSOE di Zapatero prima come del PP di Rajoy poi. L’irrompere sulla scena di nuovi soggetti, consistenti dal punto di vista elettorale come Podemos a sinistra e Ciudadanos e poi VOX a destra, ha creato una situazione che ha reso obbligatorio formare una coalizione per poter governare. Ma per una gran parte della popolazione che non governi il partito che è arrivato primo alle elezioni resta qualcosa di poco comprensibile. Questo dimostra quanto sia potente il sistema elettorale e ciò che induce nel rapporto tra politica istituzionale e masse. In queste elezioni, infatti, la differenza di voti fra PP e PSOE è stata minima ma l’abitudine a leggere i risultati in chiave bipartitica permette al PP di dire “ho vinto le elezioni” come se le elezioni fossero una competizione sportiva e non l’elezione della rappresentanza del popolo. Infine, nell’epoca della personalizzazione estrema della politica, la popolazione è convinta di scegliere con il voto il Presidente del governo, anche se non è vero per niente dal punto di vista formale. E si tratta di una idea così profondamente radicata che la stampa, le televisioni e gli stessi dirigenti politici di tutte le tendenze si riferiscono al capo del governo come Presidente de España o come Presidente Español, creando una nefasta confusione tra i ruoli di presidente del paese (che in Spagna evidentemente non esiste giacché c’è un Re) e presidente del governo e cioè del potere esecutivo esercitato da una parte politica.

Il secondo argomento del PP usato per delegittimare il nuovo governo è il seguente: Sanchez aveva garantito nella campagna elettorale che mai si sarebbe discusso di una amnistia con gli indipendentisti e invece ora si è negoziata l’amnistia con un “profugo della giustizia” come Puigdemont, e ci si prepara a negoziare un referendum che spaccherà la nazione spagnola, imbrogliando così gli elettori.
A questa argomentazione si può opporre la banale ragione che in un governo di coalizione, per giunta appoggiato dall’esterno da altri sei partiti, nessun partito può implementare integralmente il proprio programma e che è necessario cedere a chi appoggia dall’esterno il governo anche cose importanti. Ma l’enfasi e la categoricità con la quale il PSOE escludeva in modo assoluto l’amnistia definendola chiaramente incostituzionale depongono, agli occhi di moltissimi elettori, a favore della tesi del PP. Del resto lo hanno sostenuto anche dirigenti storici del PSOE come Felipe Gonzales e Alfonso Guerra.

Il terzo argomento è semplice a dirsi: il governo non è legittimo.
A corroborare questa tesi il PP e VOX hanno convocato la mobilitazione di piazza permanente contro “il golpe”, il tradimento della costituzione, l’alleanza con i “nemici della Spagna” e così via. Ma a sostenere questa tesi non sono solo il PP e VOX, perché il “Consejo General del Poder Judicial”, che corrisponde al nostro Consiglio superiore della Magistratura e che al contrario del Tribunal Constitucional non è stato rinnovato pur essendo scaduto da 5 anni, e che non ha potere di esprimersi sul contenuto delle leggi o sulla loro costituzionalità, i principali sindacati della Policia Nacional e della Guardia Civil che non dovrebbero mettere bocca sulle leggi e occuparsi solo dei trattamenti economici e dell’organizzazione del lavoro delle forze dell’ordine, non hanno esitato, ancor prima che la legge di amnistia venisse depositata in parlamento, a tacciarla di incostituzionalità, di essere un attacco allo stato di diritto e alla unità della nazione. Centinaia di “fiscales” e cioè in italiano di procuratori, sono scesi in piazza davanti ai loro tribunali per protestare contro l’amnistia. Il solito documento firmato da ufficiali in congedo ha invocato l’intervento dell’esercito per destituire Sanchez. Al di la dell’assedio per 15 giorni alla sede centrale del PSOE con scontri con la polizia da parte di migliaia di falangisti e nazisti, e di un tentativo di attacco alla sede del Congreso de los Diputados la stampa e le TV di destra, che sono largamente maggioritarie, oltre alla Conferenza Episcopale e alle immancabili organizzazioni padronali hanno preso posizioni contrarie alla formazione del governo e segnatamente alla partecipazione alla maggioranza dell’investitura di Sanchez dei partiti indipendentisti.

Tutto ciò, oltre che a mettere in evidenza il reale stato della cosiddetta “piena democrazia” spagnola, annuncia un clima politico che definire pregolpista non è esagerato, e un futuro difficile per il governo che dovrà fronteggiare una non celata opposizione del potere giudiziario, delle forze dell’ordine e degli apparati dello stato che ritengono ormai da anni di poter agire in modo autonomo in difesa della sacra unità della patria.
Per fare un solo esempio di quel che succede e che in Italia non si sa, quando la stampa ha anticipato che l’amnistia avrebbe interessato anche imputati per terrorismo (parliamo di blocchi ferroviari o stradali e simili!) privi di vittime mortali, un giudice della Audiencia Nacional (il tribunale speciale che si occupa di terrorismo) ha imputato, affinchè siano esclusi dall’amnistia, Puigdemont e la segretaria di ERC in esilio in Svizzera per aver organizzato le azioni dello “tsunami democratico” del 2019 all’indomani delle sentenze contro i dirigenti del governo e del parlamento catalano. E giacché non ci furono morti ma solo manifestazioni che bloccarono gli accessi all’aeroporto e poi ferrovie e strade, il giudice in questione non ha trovato di meglio che attribuire alla manifestazione dell’aeroporto la causa della morte per infarto di un cittadino francese, in attesa di trapianto cardiaco, in un terminal diverso da quello che fu bloccato dai manifestanti, e che venne immediatamente soccorso e trasportato in elicottero in ospedale, purtroppo inutilmente. Né la polizia, né l’ambasciata francese né le autorità aeroportuali l’avevano segnalato come vittima diretta o indiretta dei disordini con i manifestanti.

Insomma, come si vede il governo non avrà affatto vita facile giacché i poteri forti economici e istituzionali gli sono contrari.

Ma oltre a questo dato di fatto bisogna tenere conto della complessità connessa a un governo di coalizione fra un PSOE determinato, ma la cui vecchia guardia e una parte dell’elettorato e della stessa militanza non vedono di buon occhio il rapporto con gli indipendentisti baschi e catalani, e il nuovo soggetto Sumar che comprende non due o tre bensì 15 diversi partiti ed organizzazioni politiche, e con la necessità di avere sui provvedimenti importanti, a cominciare dalle finanziarie, l’appoggio di altri 6 partiti molto diversi fra loro.

Per l’investitura Sanchez ha sfoderato nel dibattito parlamentare argomenti di sinistra parlando ripetutamente contro il neoliberismo e di giustizia sociale, rivendicando come propri provvedimenti realizzati dalle ministre e ministri di Unidas Podemos che il PSOE non voleva e che ha ritardato il più possibile, ma che sono stati poi sicuramente decisivi per il risultato elettorale, ed ha dovuto ripetere pari pari le parti dei testi firmati con gli indipendentisti dove si parla di conflitto politico fra le nazioni spagnola e catalana e non di “dialogo” bensì di “negoziato”. Ha dovuto anche accettare diverse richieste economiche e di trasferimento di competenze sia dei partiti catalani sia del PNV e di Coalicion Canaria.

Non è in questo articolo che affronteremo una analisi dettagliata dello stato della sinistra di alternativa o trasformatrice che dir si voglia della Spagna. Ma, per le sorti del governo, alcune cose non possono essere ignorate.

La prima è che il PSOE, capace di trasformismi imprevedibili, é privo di una idea chiara ed esplicita del proprio paese, giacché nell’arco di poco tempo diventò da repubblicano, federalista e favorevole all’autodeterminazione di Catalunya, Euzkadi e Galiza, a monarchico, nazionalista spagnolo e contrario all’autodeterminazione. Per poi votare nel 2017 a favore dello scioglimento d’autorità del parlamento catalano e del commissariamento della Generalitat, salvo ora non parlare più di problema di convivenza in Catalunya bensì di conflitto politico da risolversi in ambito politico e negoziale.
Anche la sua collocazione come partito di sinistra, come per tutti i partiti socialdmocratici europei, è discutibile giacché è stato durissimamente liberista e amico (per non usare altre parole) delle multinazionali energetiche, delle banche e dei fondi speculativi immobiliari (nei cui consigli di amministrazione siedono molti dei suoi ex massimi dirigenti). Ora pare disposto a svoltare, anche se controvoglia, a sinistra per necessità più che per convinzione. Sanchez, quando divenne segretario generale del PSOE, alla prima occasione nel 2015 (quando la somma dei voti di Podemos e di Izquierda Unida erano più di quelli socialisti) pur di evitare di fare un governo di coalizione con Podemos e IU firmò un programma di governo con Ciudadanos (che in campagna elettorale aveva ripetutamente definito partito di estrema destra) e chiese a tutti di sostenerlo dall’esterno. Ovviamente senza ottenerlo. Dopo le elezioni anticipate del 2016 si dimise da segretario e da deputato per non votare l’astensione decisa dal partito che favorì la formazione di un governo del PP. In seguito, nel 2017 vinse le primarie e riconquistò la segretaria del partito e nel 2018 organizzò una mozione di sfiducia (che nel sistema spagnolo prevede che contestualmente venga investito un nuovo Presidente del governo) e divenne primo ministro governando in minoranza per più di un anno. Nel 2020 fece tutta la campagna elettorale escludendo categoricamente che avrebbe fatto un accordo di governo con Unidas Podemos e aprendo ripetutamente a Ciudadanos salvo poi, due giorni dopo il voto, firmare un accordo di governo con Pablo Iglesias.
Al netto delle manovre e delle mediazioni che normalmente si fanno in qualsiasi sistema istituzionale e al netto delle politiche femministe e sui diritti civili, sulle quali il PSOE è coerente da sempre, è difficile dire quale sia l’ideologia e la concezione della politica che guida il PSOE e segnatamente il suo attuale segretario. O forse per descriverla si potrebbe dire: siamo pronti a dire e fare qualsiasi cosa pur di andare al governo e di rimanerci a lungo, ma potendo scegliere saremmo volentieri liberisti, monarchici e nazionalisti spagnoli.

Alle elezioni del 23 luglio Sumar ha preso meno voti di Unidas Podemos alle precedenti, nonostante abbia allargato notevolmente il numero delle forze coalizzate. Avrà un peso minore, non molto minore ma minore, nel governo. Sumar è chiaramente sbilanciata a destra rispetto a Unidas Podemos. Yolanda Diaz, è attualmente plenipotenziaria visto che non l’ha eletta nessuno e che ha costruito programma e commissioni di lavoro come ha voluto, che ha deciso personalmente tutti i candidati e poi di escludere Podemos dalla compagine governativa, che ha nominato nel governo e nei posti decisivi di Sumar fino a quando (non si sa) ci sarà qualcosa di simile a una discussione democratica fra le forze che lo compongono, persone di organizzazioni aderenti al partito verde europeo (tranne la deputata europea Sira Rega di Izquierda Unida). Nel dibattito parlamentare, al contrario della prassi che divideva il tempo fra le diverse componenti del gruppo confederale Unidas Podemos, Yolanda Diaz ha fatto un discorso sostanzialmente subalterno al PSOE differenziandosi su pochissime cose non importanti e confermando quindi un accordo mai discusso pubblicamente sulle armi all’Ucraina, per il quale Sanchez non ha mancato di ringraziarla per “l’assenza di dubbi”. Sumar ha già di fatto perso Podemos che si coordinerà con i tre partiti indipendentisti catalani, baschi e della Galiza, e che comunque negozierà in proprio con Sanchez sia che rimanga nello stesso gruppo di Sumar o che vada al gruppo misto. Mas Pais, il partito scissionista di Podemos che nelle scorse elezioni prese il 2,40% e due seggi (praticamente tutti presi a Madrid) dopo aver incassato la nomina della ministra della sanità, ha già dichiarato che sarà una forza autonoma in Sumar. Analogamente faranno probabilmente altri, come Compromis ecc.
Per cui attualmente l’unica cosa che si può dire del futuro di Sumar è che non sarà un partito unico, né una coalizione sul modello di Unidas Podemos. E quindi è difficile dire quale sarà il suo rapporto reale con il PSOE che invece ha rafforzato fortemente il profilo politico dei propri ministri ed ha mantenuto nell’incarico il discutibilissimo ministro degli interni, già giudice accusato di non perseguire reati di tortura e difensore strenuo della politica migratoria che non ha esitato a lasciar compiere una strage (in territorio spagnolo) alla polizia del Marocco, e la ministra della difesa sempre pronta a giurare sulla fedeltà democratica delle forze armate ignorando volutamente le cerimonie filo franchiste che si celebrano nelle caserme, i pronunciamenti fascisti e golpisti di ufficiali in congedo ma richiamabili e perfino di ufficiali in servizio.

L’ultima incognita è su come evolverà il negoziato con il governo catalano. Sempre ammesso che non si interrompa bruscamente per opera di un pronunciamento di incostituzionalità sull’amnistia del Tribunal Constitucional che dovrebbe avere una maggioranza progressista ma che su un tema come questo potrebbe scoprire di avere membri molto progressisti su molte cose ma non sulla natura plurinazionale dello stato spagnolo. Anche su questo tema dovremo tornare quando sarà opportuno farlo.

Come si può arguire dalla lettura di questo modesto commento non sono molto ottimista e temo fortemente che in un modo o nell’altro le aspettative che si erano aperte con il precedente governo di coalizione si chiudano ingloriosamente.
Ma se c’è una speranza che le cose pieghino al meglio questa è dovuta al fatto che in Spagna i movimenti sociali, a cominciare da quelli femminista e sulla casa, i sindacati e una buona parte dell’intellettualità diffusa non hanno mai disarmato e continuano ad essere protagonisti della vita politica del paese.

ramon mantovani

pubblicato su http://www.rifondazione.it  e su https://transform-italia.it/  il 22 novembre 2023

La Spagna a un bivio.

Posted in articoli pubblicati sulla carta stampata ed altri siti with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 25 luglio, 2023 by ramon mantovani

La Spagna a un bivio.

Si sono svolte il 23 luglio le elezioni generali in Spagna.

Ecco i risultati (tra parentesi le precedenti elezioni):

Partido Popular: 8.091.840 voti 33,05% e 136 seggi (5.047.040 voti 20,80% 89 seggi).

Partido Socialista Obrero Español: 7.760.970 voti 31,70% 122 seggi (6.792.199 27,99% 120 seggi)

Vox: 3.033.744 voti 12,39% 33 seggi (3.656.979 voti 15.07% e 52 seggi)

Sumar 3.014.006 voti 12,39% 31 seggi (3.719.965 voti 15,29% 38 seggi) NB. nelle precedenti sono stati sommati i voti delle liste che erano fuori da Unidas Podemos e che sono ora in Sumar.

Esquerra Republicana de Catalunya: 462.883 voti 1.89% 7 seggi (874.859 voti 3,60% 13 seggi)

Junts per Catalunya: 392.634 voti 1,60% 7 seggi (530.225 voti 2,18% 8 seggi)

EH Bildu: 333.362 1,36% 6 seggi (277.621 voti 1,14% 5 seggi)

Partido Nacionalista Vasco: 275.782 voti 1,12% 5 seggi (379.002 voti 1,56% 6 seggi)

Bloque Nacionalista Galego: 152.327 voti 0,62% 1 seggio (120.456 0,49% 1 seggio)

Per ERC, Junts, Bildu, BNG, bisogna tenere in conto che si sono presentati rispettivamente solo in Catalunya Paese Basco e Galicia. Le percentuali ovviamente sono riferite a tutta la Spagna.

Inoltre: ottengono un seggio ciascuno la Coalicion Canaria e la Union del Pueblo Navarro. Entrambi partiti vicini al PP. La catalana di estrema sinistra indipendentista Candidatura de Unitat Popular (CUP) non ottiene nessun seggio e quindi ne perde due rispetto alle scorse elezioni.

Cosa può succedere ora?

La faccenda è abbastanza complicata perché il Partido popular con VOX e i due seggi di UPN e CC avrebbe (dico avrebbe parché non è detto che la Coalicion Canaria digerirebbe facilmente la presenza di Vox nella maggioranza) 171 voti sui 176 necessari alla maggioranza assoluta. Mentre PSOE e Sumar che ragionevolmente possono contare sui voti di ERC, Bildu, PNV, BNG sommano 172 seggi.

Né le destre né la coalizione progressista hanno la maggioranza assoluta che gli garantirebbe la sicurezza di formare il governo, anche atteso che Junts mai e poi mai voterebbe a favore di una investitura del PSOE o del PP.

Ma in Spagna si investe, anche con una maggioranza relativa, il Presidente del Governo e poi questi può formare il governo senza dover ottenere la fiducia maggioritaria del parlamento. In italiano sarebbe un governo di minoranza che dovrebbe poi cercarsi i voti in parlamento per i singoli provvedimenti.

In altre parole può, ed è anche probabile, che succeda questo: il PP si fa nominare dal RE e poi chiede al PSOE di astenersi sull’investitura. Nel caso dica si il PSOE può spaccarsi ed implodere. Nel caso dica no (io direi che è sicuro anche se non si sa mai) il voto alla fine sarebbe di 171 favorevoli e 179 contrari perché è sicuro che Junts voterebbe contro. Il PSOE potrebbe farsi avanti e dire di avere la possibilità di formare governo solo se: 1) soddisfa le richieste di ERC, Bildu, PNV, BNG che saranno, stando alle dichiarazioni fatte finora, ragionevoli. 2) cerca un accordo con Junts, che per il momento ha dichiarato di non avere interesse alcuno alla governabilità della Spagna e di non considerare il PSOE alternativo alle destre perché sulla concezione della Spagna monarchica e negazionista circa l’esistenza della plurinazionalità dello stato il PSOE è identico al PP. Sostanzialmente solo se il PSOE si dispone a cedere qualcosa sul tema del referendum di autodeterminazione e sull’amnistia Junts potrebbe astenersi e permettere così la nascita del governo PSOE Sumar, perché avrebbe 172 voti a favore, 171 contro e 7 astenuti. Ma anche questo potrebbe creare gravi problemi al PSOE, perché effettivamente il PSOE, che era sempre stato repubblicano e favorevole all’autodeterminazione di Catalunya, Paese Basco e Galicia, ormai è un partito monarchico e nazionalista spagnolo. E ci sono pezzi oggi minoritari ma importanti del suo partito che preferirebbero che la proposta del PSOE alla fine fosse l’astensione per favorire un governo del PP e “per tenere fuori dal governo i fascisti di VOX”.

Insomma, alla fine tutto sta nelle mani di Junts, e conseguentemente nelle mani del PSOE che deve decidere almeno se continuare il negoziato con la Generalitat Catalana, che ha dichiarato chiuso prima delle elezioni, accettando che si discuta anche di amnistia e referendum o se andare ad una ripetizione elettorale che quasi certamente consegnerebbe il paese ad un governo di estrema destra, perché Vox è di fatto come una corrente esterna di un PP che non ha mai condannato il franchismo e che anche in questa campagna elettorale ha dichiarato di voler abrogare la legge di memoria storica che Unidas Podemos ha strappato al PSOE con una dura battaglia.

Vedremo cosa succederà nelle prossime settimane. C’è molto tempo per trattare.

Intanto segnalo due temi che meriteranno maggiore attenzione ed approfondimento. E tengo a precisare che dico opinioni personali non discusse, ancora, in nessun ambito collettivo.

SUMAR

Penso che SUMAR, che ha aggregato oltre a Podemos ed Izquierda Unida (il PCE è dentro Izquierda Unida con la doppia tessera) anche quasi tutte le scissioni storiche, sia di Podemos sia di Izquierda Unida, oltre a forze locali ed ambientaliste nate più recentemente, abbia un profilo più moderato di Unidas Podemos. Detto in altro modo, un profilo più subalterno al PSOE che però, sia chiaro, non è il PD italiano ed è costretto a fare i conti, per governare, oltre che con Sumar anche con ERC, BNG e Bildu che sono forze di sinistra antiliberista oltre che indipendentiste. Ho letto che in Italia c’è chi dice che Sumar è un esempio perché “si è presentato autonomamente e con proprie liste”. Ma scrivere questo è sbagliatissimo perché in Spagna le coalizioni di governo si fanno solo dopo le elezioni ed è quindi scontato che tutti si presentino “autonomamente e con proprie liste”. E lo è maggiormente se si ignora che la proposta di Sumar è stata insistentemente quella di rifare il governo col PSOE. La qual cosa può piacere o meno, ma è così. Inoltre devo dire che Sumar non ha pronunciato mai nemmeno una volta la parola guerra in campagna elettorale. Come del resto tutti gli altri. E devo anche dire che Sumar, anche a causa delle elezioni improvvisamente anticipate è un purissimo cartello elettorale su un programma veramente molto generico e senza un progetto serio sul tema che a mio parere ha messo fine alla falsa transizione dal fascismo alla democrazia e che è la questione dell’autodeterminazione delle nazioni che insistono sul territorio dello stato spagnolo borbonico. Lo scontro fra Yolanda Diaz e Podemos che è durato mesi prima delle elezioni (e scrivo Yolanda Diaz e Podemos perché gli altri a cominciare da IU e PCE e perfino PSOE hanno assistito attoniti cercando di contenere i danni) oltre a denunciare una natura leaderistica di entrambi i contendenti hanno evidenziato un problema reale di natura politica: il considerare il rapporto col PSOE come un rapporto strategico o come un rapporto tattico e strumentale che non mette la sordina, senza fare rotture innecessarie e settarie, alle divergenze reali. Perché il PSOE e segnatamente Sanchez hanno tentato in tutti i modi possibili ed immaginabili di non fare governi con Podemos e IU e avrebbe preferito mille volte fare un governo con Ciudadanos.

Vedremo come se e come si consoliderà l’aggregazione di 15 forze politiche, su quali basi politiche serie e con che metodo democratico. Credo che chiunque a sinistra si auguri un successo. Ma senza la consapevolezza delle difficoltà e senza idee chiare strategiche e tattiche, illudendosi che frasi retoriche e vuote possano mettere al riparo da divisioni alla prima occasione, il fallimento è certo.

Gli indipendentisti.

La litania del Psoe in campagna elettorale è stata che in Catalunya è tornata la pace e la convivenza, che il dialogo ha dato i suoi frutti e che tutto è tornato come prima degli anni “bui” del referendum illegale. Vox nel suo programma propone di eliminare le autonomie locali regionali e di mettere fuori legge i partiti indipendentisti. Sumar che bisogna fare dialogo e poi sottoporre al voto dei catalani gli esiti del dialogo (posizione del PSOE all’inizio della scorsa legislatura). Ma senza specificare neanche dietro reiterate domande se nella proposta di dialogo di Sumar era compresa o meno l’autodeterminazione (che hanno nei loro programmi e statuti sia Podemos, che IU e il PCE, i Comuns ecc.)

Al Psoe ha risposto magistralmente il candidato della CUP che ha detto alla Presidenta del Congreso uscente: “mi scusi, ma se tutto è pacificato e c’è una meravigliosa convivenza in Catalunya come mai il suo ministero degli interni infiltra agenti nelle nostre fila?” Perché c’è il caso dei 65 dirigenti indipendentisti spiati e per solo 18 dei quali è emerso un ordine giudiziario (totalmente ingiustificato), e ci sono due casi recentissimi per cui due agenti hanno infiltrato organizzazioni giovanili indipendentiste di partiti che stanno nelle istituzioni. Ci sono ancora  più di 500 inquisiti, diversi dei quali rischiano pene gravissime di più di 10 anni di carcere per blocchi stradali e ferroviari senza alcuna violenza (in applicazione della famigerata legge “bavaglio” del PP che il governo PSOE Unidas Podemos si era solennemente impegnato ad abrogare senza poi toccarla minimamente in 4 anni di legislatura). È stato ufficialmente appurato che lo stesso telefono di Pedro Sanchez e di altri dirigenti del governo sono stati spiati. Ma non si sa da chi (!)

Il movimento indipendentista catalano pacifico e di popolo ha dato una spallata fortissima al regime scaturito dalla cosiddetta transizione. La risposta del PP è stata nei fatti la nascita di VOX. Perché il franchismo che è sempre stato dentro il PP fin dalla sua fondazione da parte di ex ministri di Franco, è diventato incontenibile e negativo per l’immagine del PP dentro e fuori la Spagna. Il PSOE che ha governato in solitario molto a lungo ha la responsabilità storica di non aver completato la transizione con un referendum sulla monarchia e proponendo una repubblica federale. E adesso pur avendo bisogno dei voti degli indipendentisti alterna dichiarazioni dialoganti ad atti e parole di stampo sciovinista contro gli indipendentisti. Il PS catalano ha subito tre scissioni verso l’indipendentismo. Ancora 10 anni fa proponeva esattamente quel che oggi propongono gli indipendentisti più radicali e cioè un referendum di autodeterminazione sul modello canadese.

I partiti indipendentisti hanno subito una grave sconfitta in queste elezioni. Sono divisi sulla via del dialogo e sulla via dello scontro frontale con qualsiasi governo ci sia in Spagna. Ovviamente come sempre la ragione non sta tutta da una parte o dall’altra.

Ma se in Spagna non ci si incammina verso un dialogo vero sul tema vero che è la natura plurinazionale dello stato superando la concezione delle monarchie assolutiste e del franchismo, che storicamente hanno sempre tentato di assimilare con la forza catalani e baschi uccidendone la cultura e la lingua, il movimento indipendentista non solo non sparirà, ma diventerà un problema che farà prevalere in Spagna la via autoritaria.

La partita che giocheranno PSOE e Sumar con gli indipendentisti baschi, catalani e della Galicia e segnatamente con Junts sarà un primo passo in una direzione o nell’altra.

ramon mantovani

pubblicato su http://www.rifondazione.it e transform-italia.it il 24 luglio 2023