Perchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (2)

Seconda fase parte prima.

La fase neoliberista del capitalismo è stata ed è un enorme processo di ristrutturazione economico-finanziario, una fortissima concentrazione e contemporaneamente un’esponenziale crescita di società multinazionali, una violenta distruzione delle regole e dei vincoli che erano stati imposti nella fase keinesiana, un durissimo attacco al movimento operaio e a qualsiasi SINISTRA reale.

Abbiamo già detto precedentemente come la fase keinesiana avesse minato, in tutto l’occidente, il motore dello sviluppo capitalistico. E avesse posto alcune delle condizioni fondamentali per rendere politica (e non solo teorica) la possibilità del superamento del capitalismo in occidente.

Già alla fine degli anni 60 tutto ciò è più che evidente.

La società è organizzata e funziona intorno alla produzione materiali di beni, merci e servizi. La finanza (che è consustanziale al capitalismo) serve agli investimenti del capitalismo principalmente dedito alla produzione di merci. Il mercato interno di ogni paese è il motore principale dello sviluppo, e con esso il prezzo del lavoro (salario e stipendi) sale per garantire la realizzazione del profitto attraverso la vendita delle merci. I paesi esportatori, essendo il commercio internazionale un sistema a somma zero (se c’è chi vende ci deve essere chi compra e le bilance commerciali alla fine devono pareggiarsi, pena una grave crisi di sovrapproduzione), devono contare su una crescita, anche favorendola direttamente, dei mercati interni ai paesi importatori. Lo fanno con misure monetarie che “peggiorano” la loro capacità competitiva rispetto ai paesi meno sviluppati per favorirne lo sviluppo e la crescita del mercato interno. Viceversa questi ultimi fanno l’esatto opposto, svalutano le proprie monete per ridurre il deficit commerciale e garantire occupazione e mercato interno. Vengono alla luce le gravi contraddizioni del modello fordista di organizzazione e divisione del lavoro, relative alla massificazione delle società, alla alienazione, alla distruzione ambientale e perciò, il movimento operaio e la SINISTRA ne teorizzano il superamento per la creazione di un nuovo modo di produzione.

La caduta del tasso di profitto del capitale investito in produzione di merci; il commercio internazionale “regolato” e vincolato; il dominio degli USA che pagavano parte dello sviluppo garantendo a una cerchia di paesi (sostanzialmente il club dei paesi dell’OCSE) un alto tasso di sviluppo ottenendo in cambio la loro subalternità politico-militare; la esclusione dal “circolo virtuoso” dei paesi fuori dall’OCSE e le loro rivendicazioni ad uscire dall’arretratezza, che avrebbero ulteriormente regolato in senso sempre più solidale il commercio internazionale; il crescente potere di condizionamento del modello di sviluppo da parte del movimento operaio, sono tutte condizioni che a un certo punto diventano insostenibili per la logica intrinseca del capitalismo. Che è sempre la ricerca del massimo profitto. Come sono le condizioni alla base della necessità storica di superare il compromesso keinesiano in senso anticapitalista. Sia sul versante di una direzione pubblica dell’economia volta a mantenere la sviluppo dei mercati interni obbligando gli investimenti ad orientarsi secondo una logica contrapposta alla ricerca del massimo profitto, sia sul versante della ulteriore solidarizzazione del commercio internazionale, anche rimettendo in discussione le asimmetrie prodotte a Bretton Woods in favore del dominio USA.

Che succede, invece?

Prima di descrivere la possente controffensiva del capitale bisogna per forza, perché è una precondizione fondamentale, citare una nuova condizione politica. Una vera novità, che non manca di avere risvolti anche paradossali.

A un certo punto gli USA non furono più in grado di garantire la convertibilità del dollaro in oro (anche a causa del costo della guerra in Viet Nam che fu molto più lunga del previsto e che costo moltissimo). La convertibilità del dollaro in oro era il fondamento di tutto il sistema monetario e commerciale mondiale e soprattutto della sua stabilità. Nonché del potere politico degli USA che veniva esercitato negli interessi propri e del club dei paesi ricchi e sviluppati. Nel 1971 Nixon dichiarò inconvertibile il dollaro in oro. Ma a questa scelta obbligata non corrispose una perdita di potere degli USA, come sarebbe stato logico. Bensì il contrario. Non esistendo nessuna moneta di un paese in grado di pagare il prezzo di esercitare la funzione garantita fino ad allora dagli USA, in virtù di una pura preminenza politico-militare il potere di comando degli USA sull’economia mondiale si accrebbe. La scelta di non inventare, alla firma degli accordi a Bretton Woods, una moneta mondiale garantita da un accordo multilaterale (il Bancor che aveva sognato Keynes) si rivelò per gli USA strategicamente decisiva. Qualche mese dopo la dichiarata inconvertibilità del dollaro in oro vennero cancellati gli accordi di Bretton Woods e la stabilità monetaria mondiale, per quanto asimmetrica fosse stata, finì. Da quel momento in poi il sistema avrebbe funzionato non più con una base materiale, per quanto mediata dal dollaro. Bensì sulla base del semplice complesso dei cambi valutari che fluttuavano liberamente.

Questa fu la svolta storica, determinata da condizioni squisitamente politiche, che mise fine al tentativo condizionare lo sviluppo capitalistico con regole capaci di impedire crisi epocali, come quella del 29, e di garantire un certo grado, asimmetrico e squilibrato, ma comunque ispirato alla cooperazione e perfino alla solidarietà nelle relazioni commerciali internazionali.

Questa svolta, decisa al di fuori di qualsiasi discussione democratica e ignota e misteriosa per la stragrandissima maggioranza della popolazione mondiale, fu il la definitivo per la controffensiva del capitale.

Come per la sinistra non esiste politica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria, per il capitalismo fu decisiva la teoria economica neoliberista. Da allora in poi i cervelli neoliberisti divennero guru, profeti indiscussi e vennero premiati con diversi premi Nobel.

Seguendo le loro indicazioni i capitalisti dei paesi esportatori e con rapporti di forza politici meno favorevoli per il movimento operaio, come gli USA e la Gran Bretagna, iniziarono ad aumentare i prezzi delle merci per annullare gli aumenti salariali che erano stati contretti ad erogare. La latente sovrapproduzione emerse con forza. Perché sebbene si riduca il costo del lavoro, insieme ad un costante aumento della produttività per ora lavorata, a favore del profitto, si deprime il mercato interno e non si vende tutto quel che si produce. La conseguente inflazione e disoccupazione provocano un ulteriore blocco degli investimenti e della crescita, chiudono il cerchio e si scopre che eliminare il “circolo virtuoso” può produrre un nuovo circolo vizioso non solo per gli operai ma anche per il capitale. E’ la famosa stagflazione. Vera ossessione delle imprese capitalistiche dell’epoca. Se la ricerca del massimo profitto deprime il mercato interno e produce crisi di sovrapproduzione che possono cancellare il massimo profitto la soluzione è semplicissima. Bisogna vendere le merci esportandole. Questa propensione esportatrice scatena una competizione mai vista prima e soprattutto rovescia il pur squilibrato ordine monetario che aveva sorretto la fase precedente. I paesi prevalentemente esportatori necessitano di monete sottovalutate e forti e di tassi bassi di interesse sul denaro, per favorire le esportazioni e gli investimenti. I paesi prevalentemente o addirittura quasi totalmente importatori sono costretti, per far fronte all’indebitamento della bilancia commerciale, a sopravalutare le proprie monete, rendendole così sempre più deboli. Soprattutto devono rendere le loro economie attrattive per i capitali speculativi che cominciano a circolare potentemente. Non hanno altra scelta per poter sostenere la spesa pubblica, per quanto ridotta sia rispetto a quella dei paesi esportatori.

Le monete si svalutano e si rivalutano non più per cercare di mantenere la stabilità ed evitare crisi finanziarie, ma solo per competere meglio nella giungla che è diventato il mercato mondiale. E’ cominciata l’epoca della competizione totale. La “competitività delle imprese” e dei “sistemi paese” è la legge che sovra ordina tutto. Le conseguenze sono enormi, da tutti i punti di vista.

Citiamo solo quelle salienti. Senza pretesa di descrivere ed analizzare completamente un fenomeno così grande e complesso che è conosciuto con il nome di “globalizzazione”.

Innanzitutto c’è il fatto che se il sistema per svilupparsi deve sempre più esportare, svincolandosi dal mercato interno, per competere può e anzi deve ridurre il costo del lavoro, in una spirale crescente. I bassi salari da limite dello sviluppo, come erano nella fase precedente dominata dal mercato interno, diventano condizione per lo sviluppo connesso alle esportazioni nella fase del mercato globale. Questo automaticamente deprime la forza del movimento operaio e dei lavoratori. E’ facile ricattare e far valere il ricatto dicendo una cosa semplicissima, se non competiamo falliamo e se falliamo i posti di lavoro spariscono. Insomma, dovete sacrificarvi se volete salvare il posto di lavoro.

Si innesta un meccanismo per cui i paesi esportatori impongono “nuove regole”, cioè semplicemente deregolamentano, nel commercio internazionale a favore delle proprie imprese, sia nazionali sia multinazionali. Meno regole ci sono, e meno dazi e possibilità di imporre dazi da parte dei paesi importatori, più competizione c’è. E quindi, dicono i neoliberisti, più possibilità di sviluppo per tutti. Peccato che le regole che vengono abrogate sono proprio quelle che permettono ai deboli di non competere “alla pari” con i forti. E cioè di non essere totalmente sopraffatti in poco tempo.

Il capitale, libero da molti vincoli che l’avevano limitato nella ricerca del massimo profitto, non solo si orienta ad investire nella competizione, speculando sempre più, sul mercato globale e sui singoli mercati, ma ottiene, attraverso precise decisioni politiche prese negli organismi fuori da qualsiasi controllo democratico, come il GATT (poi WTO), di estendere il mercato sul quale competere anche a comparti e settori fino ad allora completamente pubblici. Infatti i paesi più deboli sono sempre più costretti, per reggere il deficit commerciale, per non soccombere e per non cancellare totalmente la spesa pubblica che pur riducono sempre più, a svendere il patrimonio naturale come giacimenti di materie prime e biodiversità, sistemi ed imprese pubbliche di trasporti, di comunicazione ecc, e perfino il patrimonio culturale e paesaggistico. Inoltre, ma ne parlo solo da questo punto di vista perché il tema è enorme, alla fine degli anni 80 c’è in poco più di due anni (la Cina aveva già cominciato prima) l’intero Est Europeo che entra nel mercato capitalistico. E l’immensità del processo di privatizzazione e allargamento territoriale del mercato da un respiro grande al processo stesso. Conferendogli l’aura di qualcosa di definitivo e infinito presso le opinioni pubbliche del mondo.

Non c’è, infatti, solo la sconfitta del “circolo virtuoso” e della possibilità di ridurre, contenere e superare il capitalismo in occidente. E’ proprio questa sconfitta, insieme alla stagnazione e ai limiti del modello del socialismo reale (non solo e non soprattutto a causa del divorzio crescente fra il bisogno di liberazione delle popolazioni e i regimi ottusi e autoritari che le governano dall’alto) a produrre la fine del socialismo reale in un battibaleno.

I capitalisti diventano sempre più indifferenti al territorio dal quale provengono. Non nel senso di diventare privi di radici e di rapporti politici con il territorio, separandosi da qualsiasi stato nazione, come vuole una vulgata e una cattiva lettura della critica della globalizzazione. Semplicemente diventano liberi dall’obbligo di contribuire in proprio alla qualità del mercato interno accettando l’aumento del costo del lavoro e contribuendo, con forti tassazioni, alla spesa pubblica in welfare, infrastrutture e gestione politica di settori strategici dell’economia. Mentre prima dovevano venire ad accordi e compromessi con il potere politico, che era intestatario del potere di creare le condizioni per la riproduzione del capitale, ora sono loro a costringere il potere politico a favorirli in tutto e per tutto nella competizione globale e a far fronte alla spesa pubblica vendendo sui mercati le imprese pubbliche, le banche, i servizi pubblici, e a tartassare, ove necessario, la popolazione invece che le imprese. Sono ora i mercati e i capitalisti ad avere in mano completamente le leve per garantire o meno la riproduzione del potere politico. Sono loro cioè a decidere nei fatti della rielezione o meno di un governo. Tutto ciò è così vero che ben si vede nel processo di delocalizzazioni, che cominciò in Italia già negli anni 70. I governi devono “concedere” molto, producendo gravi conseguenze sociali, affinché le imprese rimangano sul territorio e non precipitino il paese nella disoccupazione di massa, ma le imprese se ne fregano delle conseguenze sociali delle loro delocalizzazioni e le fanno lo stesso, e i governi per attrarre nuovi investimenti devono produrre condizioni sempre più vantaggiose per il capitale. Per esempio i bassi salari non bastano più, bisogna precarizzare e svalorizzare sempre più il lavoro umano. E costruire infrastrutture risparmiando sulle spese sociali. E così via all’infinito. Anche se tutto ha un limite, speriamo. Non abbiamo più (USA a parte) governi mediatori di interessi e nemmeno alti “comitati d’affari” delle borghesie nazionali che dovevano farsi carico dei problemi del paese, nel bene e nel male. Abbiamo governi “maggiordomi” o “camerieri” o “servi” con funzione di “guardie”, al totale servizio delle imprese nazionali, delle multinazionali e dei loro interessi più immediati. Governi che devono obbedire velocemente.

Ma il tratto ancor più dirompente della nuova fase neoliberista è la finanziarizzazione. Il capitale impiegato nella produzione di merci, come abbiamo già detto, nella fase del “circolo virtuoso” realizzava tassi di profitto troppo bassi. Molte imprese avevano già in quella fase propri settori finanziari che avevano iniziato a svincolarsi dalla mera attività industriale e a indirizzare il capitale in operazioni più redditizie come la rendita fondiaria moderna, investimenti speculativi in borsa e perfino in titoli di stato. Dopo la fine di Bretton Woods, inizia la deregolamentazione delle transazioni finanziarie, visto che la competizione sui mercati internazionali lo richiede imperativamente. Del resto con la libera fluttuazione dei cambi valutari si creano le condizioni per speculare ogni giorno (ogni ora con le nuove tecnologie veloci e praticamente gratuite) con sempre più ingenti masse di capitale scommettendo sulle variazioni di cambio di qualsiasi moneta. E si cancellano nel tempo, negli USA e poi dovunque, tutti i vincoli introdotti dopo il 29 per il settore bancario, come la rigida separazione delle banche di credito che prestavano soldi alle imprese e ai cittadini dalle finanziarie che operavano con investimenti speculativi in borsa. All’inizio del processo le principali finanziarie speculative del mondo erano statunitensi. Ne nasceranno dovunque. E alle scommesse si aggiungono le scommesse sulle scommesse. E così via. Facendo crescere a dismisura il capitale finanziario totalmente separato dalla produzione. Sembra che si possano fare soldi con i soldi. E che grandi e piccoli investitori (in Italia li hanno sempre chiamati risparmiatori, ma in realtà al momento dell’investimento diventano esattamente l’opposto di risparmiatori) possono arricchirsi in breve tempo. Il destino delle nazioni, e della grande maggioranza degli individui (anche quelli che non investono un bel niente) non dipende più dallo sviluppo produttivo, dalla soddisfazione, attraverso il consumo, di bisogni elementari e maturi di società sempre più complesse. Dipende sempre più dagli andamenti dei cambi valutari, dalla borsa, dalla rendita finanziaria. Si diffonde l’illusione che si possa consumare di più di quello che ci si potrebbe permettere attraverso il lavoro. Facendo, appunto, soldi con i soldi. Siccome una parte del capitale speculativo si dedica anche a comprare e vendere imprese, nel processo di concentrazione derivante dalla competizione globale, e a scommettere in borsa sulla capacità di competizione delle imprese, anche queste ultime vedono spesso i propri destini dipendere dalle scommesse che si fanno o non si fanno su di loro e, nel processo di concentrazione e internazionalizzazione delle imprese, l’acquisizione e la vendita di fabbriche e perfino di interi settori produttivi di grandi multinazionali si fanno più secondo la logica degli appetiti speculativi che secondo quella di piani industriali veri e propri.

Tutto questo è alla base della crisi odierna. Perché far soldi con i soldi nel lungo periodo è impossibile. Si può scommettere sulle scommesse a lungo. E indebitarsi molto al di sopra delle proprie possibilità, creando così una crescita completamente virtuale. Ma alla fine se si fanno soldi, da qualche altra parte nel mondo per quanto lontano esso sia o non si veda, ci deve pur essere qualcuno che crea, con il lavoro, il valore sul quale si fonda quello dei soldi. Il giorno che si scopre che quel valore non è stato creato o, come è successo pochi mesi fa, non è scambiabile trasformando il valore della merce in danaro, perché l’acquirente che si è impegnato a comprarlo non è in grado di pagarlo, tutti i titoli di quelli che hanno scommesso sulle scommesse di quelli che hanno investito su una previsione sbagliata perdono di valore. E il sistema crolla. Si può salvarlo per un periodo, semplicemente immettendo nel circuito, e dandoli proprio ai responsabili del disastro, soldi garantiti e non virtuali, da parte degli stati. Con buona pace dei mille liberisti che lo sollecitano contraddicendo ogni loro principio. Distogliendo quei soldi, invece, proprio dalle altre cose su cui andrebbero impiegati. Si tenta, cioè, di rimettere con i piedi per terra lo stesso identico castello speculativo che è caduto rovinosamente. Sapendo che si potrà reggere in piedi sempre per un minor tempo, però. Perché il libero mercato e la libera finanza se non vengono impediti con regole e vincoli, ed anche con la coercizione, vanno alla bolla speculativa come una falena alla luce di notte. Con una sempre maggior velocità.

In Europa, proprio nella culla del “circolo virtuoso”, questo processo neoliberista si sviluppa in modo contradditorio. Un modello economico e sociale che ha accompagnato la ricostruzione dopo la guerra e che ha garantito sviluppo e crescita generale per tutti (nonostante gli enormi problemi e squilibri) non si cancella dalla sera alla mattina. Cominciano a crescere le tendenze di fondo neoliberiste, a partire dalla Gran Bretagna che non a caso all’inizio degli anni 80 sarà la prima ad applicare durissimamente le dottrine neoliberiste, ma esse convivono con gli istituti del welfare, con una forte presenza della stato in economia, ed anche con politiche monetarie comunitarie ancora parzialmente ispirate dallo spirito di Bretton Woods. Per esempio, mentre nel mondo le monete fluttuavano liberamente in Europa viene creato il Serpente Monetario Europeo, che nel 78 diventerà Sistema Monetario Europeo (SME), dal quale la Gran Bretagna rimarrà fuori. Sostanzialmente, non senza problemi, dentro il Mercato Comune i paesi con alta produttività ed esportatori si assumevano il costo, operando sul mercato valutario, di impedire che la bilancia commerciale si squilibrasse eccessivamente con i paesi a bassa produttività ed importatori. Perché alla lunga avrebbe limitato le esportazioni e la stessa crescita dei paesi più forti. Ma, nel corso, del tempo, come era del resto successo con il sistema di Bretton Woods, gli squilibri permisero alla Germania di dominarlo, utilizzandolo sempre più unilateralmente e, data la sua propensione sempre più esportatrice, iniziò fin da subito ad applicare, soprattutto con la sua Banca Centrale, una politica economica neoliberista. Vale la pena di soffermarsi, anche se brevissimamente e aprendo una parentesi, su un fatto praticamente sconosciuto ai molti che parlano a vanvera della Linke e dell’esperienza tedesca. L’unico tentativo di invertire la rotta neoliberista tracciata dalla Banca Centrale Tedesca fu messo in atto nel 98 dal Ministro delle Finanze Oskar Lafontaine, quando insieme al governo francese tentò di avviare una “dialogo macroeconomico” europeo per cambiare gli assi fondamentali delle politiche economiche e monetarie europee, ormai ultraneoliberiste. La Banca Centrale e la Confidustria tedesca lo sconfissero, con l’attivo contributo di gran parte del suo partito a cominciare dal primo ministro Schroder, e dei Verdi. Perciò si dimise dal governo a dalla Presidenza (che equivale alla carica di segretario generale per i partiti italiani) della SPD.

La traiettoria neoliberista seguita nella costruzione europea nel corso di tre decenni richiederebbe una lunghissima trattazione. Non è possibile farla qui. E comunque è stata oggetto di grandi discussioni in occasione della creazione dell’Euro e del tentato varo del Progetto di Costituzione, bocciato nel referendum francese e reiterato come Trattato di Lisbona. Dovrebbe essere patrimonio di qualsiasi persona di SINISTRA. Dovrebbe.

Mi limito a ricordare che dal tentativo di salvaguardare lo “spirito cooperativo” per la stabilità monetaria, che abbiamo lungamente descritto, e di temperare, correggendoli, gli squilibri che in Europa produceva il mercato e la sua logica spontanea, si passa esattamente al contrario. Sul piano mondiale l’Europa diventa, anche in concorrenza “controllata” con gli USA una delle punte di diamante dell’offensiva neoliberista. Infatti adotta una linea, più per responsabilità della Commissione che dei singoli governi, aggressiva e ultraneoliberista verso i paesi del terzo mondo. Apre i mercati finanziari a qualsiasi speculazione e transazione senza alcun controllo. Sul piano interno adotta politiche ispirate da un puro dogmatismo neoliberista, con trattati (Maastricht) che palesemente implementano unicamente la finanziarizzazione, gli interessi dei paesi e delle regioni forti e, naturalmente delle grandi multinazionali, a scapito dei paesi e delle zone deboli. A queste ultime vengono imposti tagli draconiani alla spesa sociale e provvedimenti che trasformano i loro territori in terra di conquista della speculuzione immobiliare e finanziaria.

L’ultimo tema sul quale vorrei soffermarmi, nella descrizione parziale e sommaria della restaurazione neoliberista è quello della guerra.

Come abbiamo detto esiste un legame fra le politiche neoliberiste che negli anni 70 e 80 si affermano, e il crollo dell’Unione Sovietica, del COMECON e del Patto di Varsavia. E’ un punto che andrebbe approfondito. Non è nelle mie capacità farlo. Ma certamente, nel pieno della restaurazione neoliberista che investe l’occidente e di conseguenza tutto il mondo, la fine del socialismo e di economie e sistemi sociali che, per quanto piene di problemi, erano fuori dal mercato capitalistico e dal sistema fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, pone al sistema geopolitico enormi problemi.

In estrema sintesi, gli USA, che come abbiamo visto, hanno mantenuto la loro egemonia politico-militare nel corso dei tre decenni precedenti, scelgono ed impongono a tutti dopo l’89, prima con Bush padre e poi soprattutto con la presidenza democratica Clinton, una linea che si prefigge obiettivi ben precisi. Impedire che l’ONU (altro attore che Keynes e i paesi socialisti avevano sperato diventasse decisivo) si democratizzi e soprattutto, venuta meno la guerra fredda, diventi protagonista, come del resto vorrebbe il suo Statuto, soggetto promotore di pace e di soluzione politica delle controversie internazionali. Impedire che l’ONU e le sue agenzie, come quella sul commercio e lo sviluppo, sulla sanità ecc. possano agire per disturbare gli interessi del capitalismo finanziarizzato. Lo fanno, ottenendo fortissima collaborazione da parte dell’Europa, sia trasformando gli incontri informali del G7, poi G8, in un vero direttorio che sovrasta lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU e che indica la strada sulla quale tutti devono marciare dal punto di vista economico, politico e militare. Lo fanno trasformando la NATO, che a stretto rigor di logica non avrebbe più motivo di esistere, nel gendarme del mondo che, come succede per la guerra contro la Repubblica Federale Yugoslava, può intervenire militarmente fuori dei propri confini, sulla base di una decisione propria e senza nemmeno che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU abbia discusso di alcunché. Sanno bene i governi degli USA e quelli europei, che gli enormi squilibri che produce e produrrà il modello neoliberista nel mondo non possono che essere “governati” senza democrazia e con la coercizione militare. Del resto i teorici del neoliberismo lo teorizzano apertamente da tempo in sede accademica. Con una minima approssimazione credo si possa dire che tutte le guerre, dalla caduta del muro di Berlino in poi, hanno la caratteristica di produrre instabilità generale e in aree sensibili (balcani e medio oriente per esempio) al fine doppio di giustificare una crescente presenza militare della NATO e dei paesi ricchi e di ristrutturare le relazioni geopolitiche in modo coerente con il dominio del mercato e del sistema capitalistico.

Oggi, nel pieno della crisi, si vede ancor meglio quanto fosse importante strategicamente per gli USA, in gravi difficoltà economiche prodotte dalla incessante tendenza all’indebitamento e dalla forte esposizione alle conseguenze delle bolle speculative connaturata alla concezione dello stato debole in economia, mantenere la propria egemonia politico-militare per se stessi e per il sistema capitalistico mondiale. Le contraddizioni che emergono con forza nella crisi dovrebbero, o potrebbero, produrre la creazione di un ordine mondiale fondato sul multipolarismo (da non confondere con il multilateralismo clintoniano che è solo l’unilateralismo concordato fra i paesi ricchi). Ma lo scontro di civiltà ricercato in ogni modo, e teorizzato due decenni fa da Huntigton come sostitutivo del confronto fra est e ovest e della lotta di classe, e la reiterazione ancor più estremista dei dogmi neoliberisti e della primazia degli organismi come il FMI, dominato politicamente degli USA, unitamente al rilancio della NATO, tendono ad impedire un simile approdo o processo. Tendono, perché in America Latina è aperta la possibilità che si aggreghi un polo geopolitico dotato di un modello economico e sociale non neoliberista e dichiaratamente, in diversi paesi, anticapitalista. E’ la dimostrazione che un altro mondo è possibile. Che dalla crisi irreversibile e strutturale del sistema di può uscire a sinistra. Perciò gli USA e l’attuale governo Obama vogliono eliminare questa possibilità, non esitando ad alimentare la guerra civile in Colombia allo scopo di installare numerose basi militari e a schierare nuovamente (era stata disattivata nel 1950) la IV Flotta al largo delle coste del Venezuela.

Queste 20 pagine riassumono certamente in modo del tutto insufficiente anche i soli tratti salienti dell’enorme processo di ristrutturazione capitalistica nella fase neoliberista. Non avevo, del resto, la presunzione di poterlo fare bene. Ma sono, spero, sufficienti per passare ad analizzare alcuni processi politici e il cambio di significato delle parole che mi sta a cuore chiarire.

Già negli anni 70, all’inizio della restaurazione e della cancellazione progressiva delle esperienze di “circolo virtuoso”, nella SINISTRA italiana avvengono molte cose. Ho già detto della contraddittorietà delle scelte del PCI degli anni 70. Il PSI non ha dubbi e non fa scelte contraddittorie. Decide chiaramente di sposare gli interessi dei settori emergenti del capitalismo finanziario, dedito alla rendita fondiaria moderna. Propugna una modernizzazione del paese, che in realtà non è altro che la riforma complessiva del “sistema italia” affinché possa competere nella giungla-mondo. Lo fa, avendo mantenuto fino ad allora un insediamento e perfino una simbologia operaia, compresi i riti di un partito di SINISTRA. Un lungo saggio del nuovo segretario del PSI, Bettino Craxi uccide Marx e Lenin e rivaluta un incolpevole Proudhon (che si sarà certamente rivoltato nella tomba). Si vedrà bene, nel corso degli anni, quale fosse la vera natura del “socialismo libertario” e contrapposto al vecchiume autoritario comunista. La svolta anticomunista e libertaria del PSI non gli costa nessuna scissione politica. Anzi, una parte dei dirigenti del movimento del 68 (soprattutto di Lotta Continua) ne diventano entusiasti sostenitori. E il PSI sebbene non aumenti molto i propri consensi elettorali riesce a sostituire con nuovi sostenitori l’esodo silenzioso che investe parte della sua base storica. Soprattutto riesce a “pesare” sempre più nella politica italiana. Una vulgata vuole che la tattica di “ALLEARSI” indifferentemente col PCI o con la DC a livello locale e quella di essere partito di GOVERNO e ALLETATO ormai strategico della DC, gli abbia permesso pur con un terzo di voti rispetto al PCI di contare tre volte più di un PCI sempre più isolato ed emarginato sulla scena nazionale. Ma questa è, secondo me, solo una piccola parte della verità. La vera base della forza del PSI, della sua crescente centralità nella vita politica e del suo “peso” risiede, a dispetto della quantità di consensi, nella rappresentanza diretta di interessi emergenti nel capitalismo italiano. Perché leggere i fenomeni politici senza indagarne i nessi con il sistema economico, con la rappresentanza di interessi e con le dinamiche sociali è foriero di gravi abbagli ed errori di valutazione. Il PSI “pesa” sempre più man mano che i settori emergenti del capitalismo crescono, grazie a tutto il processo che abbiamo descritto più sopra. Negli anni 80 siamo già nel pieno del processo di delocalizzazione di grandi fabbriche nei poli industriali. La produzione di merci nella società è stata soppiantata, nella funzione di centro gravitazionale, dalla finanza e dal “terziario avanzato” che è in gran parte legato al mondo della speculazione finanziaria e della rendita fondiaria moderna. Gli operai sono percepiti come una specie in via di estinzione da una opinione pubblica ubriacata dalla novità meravigliosa secondo la quale si possono fare soldi con i soldi. Milioni di persone (ho detto milioni!), anche delle classi meno abbienti, si fermano davanti agli sportelli delle banche ad ammirare i grafici dei listini della borsa sui video, che in tempo reale dicono quanto sta guadagnando il “risparmiatore” che ha investito i suoi soldi (magari l’intera liquidazione) nella speculazione. Il settore delle assicurazioni, delle finanziarie e la trasformazione delle banche in finanziarie dedite alla speculazione, nonché quello della pubblicità, dei mass media televisivi privati e così via, e la cementificazione legata alla rendita fondiaria assorbono buona parte della disoccupazione che ha cominciato a prodursi. La società cambia devvero. Sembra che il nuovo modello modernizzante sia la soluzione di tutti i problemi. Si afferma un “senso comune” secondo il quale la modernizzazione si lascerà alle spalle il vecchio sistema industriale. I suoi difetti come l’inquinamento, i lavori faticosi e ripetitivi, la massificazione della società, la lotta e il conflitto saranno sostituiti da un sistema più moderno, efficiente, si potrà cambiare lavoro cambiando il posto migliorando le proprie condizioni salendo individualmente la gerarchia sociale e non più dovendo lottare per strappare un aumento salariale insieme ad altre migliaia di lavoratori, facilmente si può fondare una piccola impresa commerciale o edilizia giacché il settore tira, nella società si conta non per ciò che si fa bensì per ciò che si consuma sempre più individualisticamente, la solidarietà necessaria fra sfruttati è sostituita sempre più dalla competizione in tutti gli scalini della gerarchia sociale. Ormai ci sono due SINISTRE. Una rappresentata dal PCI che sembra sempre più vecchia e strategicamente perdente (anche agli occhi di una parte del suo gruppo dirigente) perché legata ad una classe che già non ha più la forza contrattuale della fase del “circolo virtuoso” e che diventerà sempre meno importante socialmente e quindi politicamente. E ce ne è un’altra moderna, dinamica, vincente. Che cresce in importanza e che, sebbene le sue dimensioni non dovrebbero permetterglielo, è in grado di contendere alla DC la direzione del sistema politico. Certo, altri piccoli partiti borghesi e parti sempre più grandi della DC si adeguano. Ma gli uni non hanno il vantaggio di coniugare una storia di SINISTRA con le più disinvolte ALLEANZE sul piano degli interessi da rappresentare e gli altri appartengono ad un partito grande, interclassista, cattolico e conservatore e quindi poco coniugabile con i nuovi paradigmi tecnocratici e con “l’edonismo reganiano” sul quale è virato velocemente il progetto ideologicamente “libertario” del PSI. Ancora una volta nella storia è una forza considerata di SINISTRA ad essere la punta di diamante di una restaurazione borghese. E’ proprio un rovesciamento totale del significato delle parole.

Le RIFORME di cui parla il PSI sono in realtà CONTRORIFORME. La SINISTRA incarnata dal PSI è socialmente e anche ideologicamente la DESTRA  del pensiero capitalistico dominante. La LIBERTA’ è solo quella individuale competitiva e quella di impresa, non una LIBERAZIONE della classe o delle masse. L’isolamento del PCI non si da solo nel quadro politico, cioè nelle relazioni fra le forze politiche e nella possibilità di ALLEARSI. E’ un processo molto più complesso che ha le sue cause nella perdita di centralità da parte del sistema produttivo e quindi della classe operaia, nella perdita di ALLEATI da parte della classe a causa del trasmigrazione di parti del mondo del lavoro nel settore legato ai settori emergenti e rapaci del capitalismo finanziario e dedito alla speculazione e alla sua galassia di piccole e micro imprese. Culturalmente il PCI ormai fatica a sviluppare “egemonia” in una società nella quale si affermano valori individualistici, competitivi  e consumistici fino all’ossessione. Anche perché penetrano nella sua stessa base sociale, fra gli operai, nei quartieri popolari e fra i suoi stessi iscritti.

Già all’inizio degli anni 80 il PCI si era trovato davanti ad un bivio. Ormai il fallimento della politica di “unità nazionale” era chiaro. L’offensiva della FIAT evidenzia due cose precise: a) la volontà del padronato di riconvertire i rapporti di forza facendo della famosa vertenza, anch’essa cominciata con licenziamenti politici come l’ultima di Melfi, il simbolo e la prova che ormai è il capitale all’offensiva e che la classe operaia deve difendersi; b) la classe è isolata, ha perso una parte dei suoi ALLEATI. La famigerata marcia dei 40mila colletti bianchi lo dimostra.

Berlinguer e formalmente, ma solo formalmente, il gruppo dirigente del PCI imboccano la strada a sinistra del bivio. Va ai cancelli della FIAT a condividere fino in fondo le sorti della lotta e della classe. Dichiara finita l’esperienza di “unità nazionale”. Propone la prospettiva dell’alternativa, in netta contrapposizione con l’alternanza già allora teorizzata da Craxi (seppur come semplice avvicendamento fra partiti laici e DC alla guida del governo). Denuncia la degenerazione del sistema politico ponendo la famosa “questione morale”. Ci sono ancora le energie per combattere. Forse ci si può difendere contrattaccando. Ma ci sono due freni che lo impediscono chiaramente dentro il PCI. E’ questo uno dei punti più dolenti da analizzare. Negli anni 70 (come ho detto a torto o a ragione) il PCI sceglie quella strada che abbiamo descritto. Ma su quella strada, essendo un corpo vivo, cambia molto di se stesso. Se la “CULTURA DI GOVERNO” è sempre più legata al “senso di responsabilità” da dimostrare per “salvare il paese”… Se la “difesa delle istituzioni democratiche” diventa difesa astratta dello “STATO” quale esso è, comprese le decisioni autoritarie più inaccettabili sul piano repressivo… Se bisogna mantenere ed estendere i governi locali comunque, indipendentemente da ciò che si può fare di buono, date le nuove condizioni che man mano il superamento del “circolo virtuoso” producono (come succede nella prima giunta di sinistra di Milano del 75 quando il PCI cambia due assessori che fanno una politica invisa a Berlusconi e Ligresti per sostituirli con altri due che finiranno nelle inchieste sulla corruzione e del sacco di Milano)… Insomma se succedono tutte queste cose e decine di migliaia di quadri politici immersi nelle istituzioni si immaginano come classe dirigente e in procinto di cimentarsi con la prova di GOVERNO, proprio nel momento in cui comincia la controffensiva capitalistica, non è difficile capire che cresca l’idea POLITICISTA per cui, senza sentirsi di tradire alcunché, molti pensano che tutto dipenda dalla POLITICA UFFICIALE, dai voti elettorali e dalla capacità di fare ALLEANZE per governare nelle istituzioni. Infatti, all’epoca, nella discussione si parla apertamente del “partito degli amministratori” come della vera anima del PCI.

Queste cose sono freni che agiscono dentro la svolta a SINISTRA del PCI dei primi anni 80. Con silenzi significativi, non applicando e sostenendo le decisioni che si votano, dissentendo sempre più apertamente su riviste di corrente (come “il Moderno”, dei miglioristi lombardi). Berlinguer, che nessuno contesta come segretario, ha una maggioranza reale nel gruppo dirigente ben più risicata di quanto appaia. Forse non l’ha nemmeno più.

Il PSI, dal canto suo, incrementa la svolta a destra. Il pentapartito è ormai l’espressione delle forze laiche totalmente identificate con il nuovo corso dell’economia e delle correnti democristiane che le seguono sullo stesso terreno. E’ una curiosa ALLEANZA strategica, molto competitiva all’interno e instabile circa la leadership della stessa, giacché la DC è riluttante a cederla a chicchessia. Ma questa competitività interna al pentapartito e gli scontri che ne derivano, nel nuovo contesto e data la reale aderenza di tutti al neoliberismo, monopolizzano la politica. È l’anticipazione, nel sistema proporzionale, di una dialettica politica anche molto aspra che però avviene sulla base di scontri personalizzati senza che nessun cardine della politica economica e sociale venga messo in discussione. Addirittura, apparendo le politiche neoliberiste come egemoni ed indiscutibili, per molti versi questa dialettica tende a sussumere perfino quella che dovrebbe esserci fra maggioranza ed opposizione. Il gioco politico si consumava ed esauriva li dentro. Craxi ne era cosciente. Molti a SINISTRA pensavano e dicevano: “speriamo che Craxi sconfigga la DC.” “Meglio Craxi che De Mita.” Tutto ciò oscurava la vera natura restauratrice del progetto craxiano. Se invece che analizzare i contenuti della politica praticata si giudicavano le forze secondo concetti e parole ormai dal significato cangiante era facile scambiare il PSI come la SINISTRA DI GOVERNO possibile. Del resto il PSI comincia a teorizzare il superamento della prima repubblica, è sempre più incline al Presidenzialismo, e decide di forzare la situazione con una spallata. La cancellazione dei 4 punti di scala mobile (pochissime migliaia di lire sulla busta paga) sancisce la sconfitta del movimento operaio, ne distrugge la forza contrattuale visto che da quel momento dovrà lottare non più per incrementare il salario bensì per difenderlo, chiarisce che il lavoro è una merce il cui prezzo è legato esclusivamente alla produttività e al profitto e non può in nessun caso essere considerato una “variabile indipendente” da questi fattori. Determina, infine, che nella competizione che comporta svalutazione della lira ed inflazione sul mercato interno a pagare il prezzo più alto dovranno essere i lavoratori. Ovviamente la discussione, da parte dei sostenitori del provvedimento, è inquinata dalla presunta “oggettività” e necessità dello stesso, da un falso minimalismo (ma come! Tutto questo casino per poche migliaia di lire!) e soprattutto dall’accusa al PCI di fare demagogia, di aver abbandonato il “senso di responsabilità” che pure era stato così apprezzato in passato. Sono gli stessi argomenti che sempre più fortemente vengono usati nella discussione interna al PCI. Dov’è finita la politica di UNITA’ DELLA SINISTRA? Dove il “senso di responsabilità”? Dove è sparita la CULTURA DI GOVERNO? Dove ci porterà questo scontro frontale con i socialisti? All’isolamento, senza più capacità di ALLEANZE! In alcune federazioni i gruppi dirigenti locali, invece che organizzare e promuovere i Comitati per il SI al referendum che sarà poi promosso dal PCI, raccoglievano firme di iscritti e personalità dell’area del PCI che dichiaravano il NO.

Basta leggersi il Programma di Licio Gelli per capire come da allora in poi, ogni volta che si parlerà di modernizzazione del paese, del sistema politico e delle istituzioni, ricorreranno le proposte in esso contenute. Fino ai giorni nostri. Ma non si trattava solo e nemmeno prevalentemente di un complotto, per quanto sia intrisa di manovre oscure ed inconfessabili la vicenda della P2. Il sistema italiano, il “circolo virtuoso”, il PCI come forza anticapitalista dotata di un vastissimo consenso, e soprattutto Costituzione, natura parlamentare della Repubblica, dovevano essere per forza rimossi per permettere il dispiegarsi delle politiche neoliberiste. Con qualsiasi mezzo.

Il PCI si tolse di torno da se. Già dopo la morte di Berlinguer e la sconfitta del referendum la maggioranza del gruppo dirigente fa un compromesso fortemente orientato a destra. Lo scontro con i socialisti continua, soprattutto per volontà di questi ultimi che alternano attacchi durissimi a profferte unitarie sulla base della loro egemonia, ma appare sempre più come una sorta di contrapposizione priva di contenuti che non siano la collocazione nel quadro politico. Oramai la separazione del PARTITO dalle sorti dei suoi referenti sociali è evidente nell’ansia di “GOVERNO” che un corpo politico di dirigenti nazionali e locali non nasconde più. I socialisti che per un decennio hanno attaccato, non a caso, Togliatti e chiesto al PCI una svolta ideologica cominciano ad ottenerla. Per quanto Occhetto parli di SINISTRA DIFFUSA, di COSTITUENTE di un NUOVO PARTITO DI SINISTRA, e sembri proporre svolte di SINISTRA come quella che dovrebbe farla finita con il “consociativismo” e quella “ambientalista”, in realtà si prepara solo la rimozione dei simboli e dei cardini sociali ed ideologici che avevano mantenuto sempre il PCI nell’ambito della opzione politica anticapitalista. Ma sulla fine del PCI, come sulla nascita di Rifondazione, non dirò più nulla. Sono temi che mi porterebbero fuori dalla strada che ispira queste riflessioni e comunque meritevoli di ben altri approfondimenti.

Seconda fase, parte seconda.

E’ così che si arriva alla cosiddetta SECONDA REPUBBLICA.

Dopo la caduta del Muro di Berlino il capitale trionfa. Non solo si espande in una parte del territorio del pianeta prima escluso dal mercato e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma si dimostra che non esiste alternativa al sistema. E che quindi la Storia è finita. E’ la fine delle ideologie, perché ha trionfato quella egemone nel mondo. Ci possono essere mille sfumature, ma solo nell’ambito dell’idelogia vincente, che non a caso i resistenti chiamano spregiativamente “pensiero unico”.

Il PDS non è il PCI che ha cambiato nome, separandosi dal vecchiume comunista che per giunta viene accusato di non essere certamente l’erede del meglio della tradizione del PCI, che subisce una rilettura revisionistica, fino alla tesi che in realtà il PCI non è mai stato comunista (sic!), bensì socialdemocratico. Il PDS aderisce all’Internazionale Socialista e al Partito Socialista Europeo proprio nel momento in cui diventano la punta di diamante politica dell’offensiva neoliberista in Europa e nel mondo. Sposa l’idea che è necessario “modernizzare” e rendere efficiente il sistema politico attraverso riforme elettorali maggioritarie. La Lega delle Coorperative ormai è un colosso capitalistico, che applica nelle proprie aziende relazioni sindacali perfino peggiori di quelle confindustriali, i suoi settori finanziari ed assicurativi fanno parte del vorace capitalismo speculativo, i settori edilizi partecipano al banchetto. Il sindacato decide di assumere in tutto e per tutto le compatibilità del sistema neoliberista. Non più solo contrattando difensivamente i “sacrifici necessari a salvare il paese”, che non finiscono mai, ma partecipando, con la concertazione a renderli istituzionali, permanenti e praticamente indiscutibili nella contrattazione aziendale. In dieci anni siamo passati dal taglio di “poche migliaia di lire” all’accordo secondo il quale i sindacati si impegnano a contenere le richieste di aumento salariale nell’ambito dell’inflazione programmata, e cioè molto al di sotto della inflazione reale. Non si può nemmeno più lottare per conservare il potere d’acquisto del salario. In seguito accetteranno la riforma pensionistica e la conseguente istituzione dei fondi pensione, che nel mondo stanno diventando una leva immensa della speculazione finanziaria. La competizione esasperata ha prodotto un maggior disequilibrio fra i diversi paesi europei, e l’ingresso dei nuovi paesi è voluto, si dice per motivi politici, ma “permesso” solo se questi ultimi prima di entrare si ristrutturano trasformandosi in terra di conquista per le multinazionali, ma anche per le piccole imprese italiane, e soprattutto per il capitale finanziario e speculativo. All’interno dei singoli paesi cresce lo squilibrio fra zone che competono e zone che non reggono la competizione. Essendo i mercati liberi la funzione di mediazione e di riequilibrio dello stato si riduce fortissimamente. Per questo, e solo per questo, diventano tutti federalisti. PDS in testa. Tutta la retorica dell’autogoverno locale, dei rappresentanti più vicini ai cittadini, della democrazia moderna ed efficiente, riposa su una idea di riforma dello stato che deve accompagnare e implementare l’uccisione di quel che resta del “circolo virtuoso” per permettere ai “sistemi impresa” locali delle zone ricche di competere con le zone ricche in Europa e nel mondo, e alle zone deboli di competere con le zone deboli, mettendo a disposizione del mercato tutto al fine di attrarre investimenti. Povero Altiero Spinelli!

Ma nel sistema politico italiano il PDS è considerato di SINISTRA. Qualcuno mi vuol dire cosa c’entra quello che il PDS ha teorizzato e fatto negli anni 90 con la SINISTRA, sempre che la SINISTRA sia quella di cui abbiamo parlato nel corso di questo scritto?

Io, come si vede, non parlo nemmeno del fenomeno della destra italiana e della ristrutturazione del sistema politico nel periodo di tangentopoli. Sarebbe necessario, per la completezza del ragionamento, ma la trattazione sarebbe così lunga che non finirei più. E comunque sono abbastanza scontati perché molto discussi e trattati. Mi sta a cuore approfondire alcuni elementi che secondo me sono quasi totalmente sottovalutati o volutamente omessi dalla discussione attuale.

Il PDS compete con la destra? Si, certamente. Ma non per migliorare le condizioni di vita degli operai, degli impiegati, dei pensionati, degli studenti e così via. O meglio, dice di volerlo fare. Come del resto lo dice la destra. O forse che Berlusconi che promette posti di lavoro e la Lega che promette che cacciando gli immigrati ci saranno risorse per gli italiani, non lo fanno? Ma il PDS attacca la destra accusandola di fare demagogia. Dice esplicitamente che è il tempo dei sacrifici, dei tagli di bilancio per ridurre il debito pubblico e per stare negli accordi di Maastricht. Dice che il sindacato deve “concertare” e non configgere. Dice che per competere bisogna rendere “flessibile” il mercato del lavoro. Dice che bisogna privatizzare tutto. Dice che bisogna aumentare la spesa militare e partecipare alle missioni militari (cioè alle guerre) per continuare ad essere un paese “importante”. Dice che bisogna “modernizzare” la Costituzione. La GOVERNABILITA’ diventa il tutto! E dice che senza fare queste cose, ed altre che ometto per brevità, non è possibile ricreare le condizioni affinché dello “sviluppo” tornino ad avere qualche vantaggio anche le masse popolari. E’ la politica dei due tempi. Ma il secondo tempo non viene mai, e non può venire per il semplice motivo che il primo tempo distrugge sempre più i presupposti del secondo.

Torno a chiedere: è di SINISTRA tutto questo? Sfido chiunque a dirmi e dimostrarmi che ho esagerato.

E’ ispirato dal SETTARISMO descrivere così questa realtà, in sede analitica? Io penso di no. Però penso che sia SETTARIA l’idea che basti dire che il PDS non era di SINISTRA, dando vita ad una disputa nominalistica, per fare e possibilmente vincere una battaglia politico-culturale. Tuttavia senza avere chiaro in testa cosa sia veramente di SINISTRA e cosa no è facile fare un errore madornale. Pensare, cioè, che la politica delle ALLEANZE nella sfera della politica unifichi nella società un blocco sociale che accumulando forze diventi in grado di produrre nuove conquiste e di cambiare, anche solo minimamente, la realtà.

E’ il grande equivoco degli anni 90. Noi decidemmo, giustamente, di stare ai contenuti e di non diventare SETTARI, per non cadere nell’illusione che la denuncia delle contraddizioni e l’accusa al PDS di non essere di sinistra potesse risolverci il problema. I nostri referenti sociali erano piegati, sconfitti, le loro condizioni di vita erano peggiorate e continuavano a peggiorare, le loro organizzazioni sociali, come il sindacato, stavano sempre più fra quelli che gli predicavano sacrifici e che giustificavano sconfitte, nel mondo trionfava il capitalismo, il senso comune era ormai degenerato in individualismo, razzismo, xenofobia. Bisognava parlare di contenuti, di lotte. E bisognava farlo sapendo di non essere un partito di massa. Né per la quantità degli iscritti e dei voti né, tanto meno, per i legami diretti con la classe, con la società, sempre più isolata e indebolita l’una e sempre più disarticolata e atomizzata l’altra. Alcuni credevano che bastasse alzare una bandiera, perché pensavano che l’isolamento della classe e l’egemonia della destra nella società fosse soprattutto il prodotto di un fatto politico: la scomparsa del PCI. Mentre, come abbiamo visto, era vero esattamente l’opposto. Era il PCI ad essere stato cancellato per effetto della controffensiva del capitale che gli aveva tagliato le gambe nella società e che aveva messo di fronte ad un secondo bivio il suo gruppo dirigente. O resistiamo e ci scordiamo per un lungo periodo il GOVERNO e la nostra ascesa a “classe dirigente” o ci adeguiamo, separiamo il nostro destino da quello della classe e diventiamo una opzione realisticamente in grado di GOVERNARE il sistema dato, come esso è, circoscrivendo la nostra alternatività alla destra sui metodi di gestione del sistema, sui tempi e anche sullo “stile” di GOVERNO, ma non sulla sostanza. E’ abbastanza difficile pensare che se il gruppo dirigente del PCI avesse, diciamo così, tenuto duro e continuato a sviluppare una politica anticapitalista, avrebbe avuto davanti una strada in discesa. Molto sarebbe cambiato, certo. Ma non l’essenziale. Perché nelle condizioni internazionali e con la fine del socialismo reale, con la ristrutturazione capitalistica e la competizione totale, si sarebbe aperta una fase difensiva. E quando ci si difende, magari per decenni, in condizioni sempre più difficili, si finisce con l’indebolirsi. E alla fine si diventa sempre più isolati e percepiti come inutili al fine di migliorare le condizioni di vita della gente in carne ed ossa. Nella storia bisogna sapere quando si può avanzare e quando si deve resistere. Se si pensa di avanzare senza aver prima resistito, o se si pensa di avanzare invece che resistere quando resistere è imprescindibile, è matematico che ci si trova dall’altra parte della barricata. Parimenti, quando stai in una trincea a difenderti e vedi disertare una buona parte dello stato maggiore e della truppa, per quanto tu gli gridi “traditori” e loro ti rispondano dall’altra trincea “vieni anche tu che così non ha perso nessuno” tu sei più debole e quelli che vuoi difendere dietro di te, per quanto ti dicano “meno male che ci sei” o “almeno tu sei coerente” e pensino che tu sei uno di loro percepiscono che perderai. Con onore, ma perderai. E questo, in politica, è esiziale.

Ciò che devi fare è resistere, si. Combattere, si. Ma devi avere una strategia per uscire dalla resistenza sempre più passiva, per contrattaccare e possibilmente per vincere qualche battaglia. Al fine di tornare ad accumulare forze.

Magari devi passare alla guerra di movimento. Alla guerriglia. Fuor di metafora, se sei un partito di massa, con profonde radici nella classe e legami sociali, e se combatti su un terreno favorevole come il “circolo virtuoso” a tua volta instauri un “circolo virtuoso”. Conquisti parti importanti per un blocco sociale alternativo e sei in grado di fare una ALLEANZA con altri perché l’unità quando si avanza e si vincono battaglie importanti è relativamente facile costruirla. Mentre quando si arretra e perde, si deve resistere per un lungo periodo in condizioni difficili e si fatica a vedere una via d’uscita, è molto difficile. Molto.

Rimandiamo, per il momento, il tema di come si possa resistere e passare alla controffensiva. Perché in realtà la metafora che ho usato è incompleta e può essere perfino fuorviante.

Negli anni 90 oltre alla ristrutturazione del sistema economico e a tutto il processo di modificazione del modello sociale che abbiamo solo parzialmente descritto, in Italia, proprio per l’alto tasso di incompatibilità del sistema politico parlamentare e dei poteri reali del governo con la “necessità” imposta dalle nuove condizioni economiche l’attacco alla democrazia politica è stato furibondo. In Italia, al contrario di altri paesi che hanno già sistemi politici pronti per essere usati alla bisogna nella nuova fase capitalistica, il sistema politico deve essere cambiato radicalmente. Nei paesi retti da bipartitismi già interni alla pura logica della gestione e del governo dell’esistente come gli USA, o in paesi con sistema bipartitico dove uno dei due partiti ha una storia e un insediamento di SINISTRA come la Gran Bretagna, i sistemi politici possono tranquillamente rimanere come sono. Anzi, diventano dei modelli a cui ispirarsi proprio perché, nonostante abbiano sistemi elettorali immutati da quando votavano solo poche centinaia di migliaia di persone perché erano nei fatti la classe dirigente del paese, sono più congeniali a incanalare il consenso unicamente dentro il GOVERNO dell’esistente con la rapidità e il grado di autonomia delle istituzioni dal conflitto sociale necessari a prendere tutte le misure imposte dalla competizione globale delle imprese e della finanza. In Gran Bretagna basta che il Labour Party si trasformi. Non c’è bisogno di cambiare il sistema. Infatti il Labour abbandona, oltre a qualsiasi riferimento alla lotta di classe ecc. anche la sua idea proporzionalista della riforma elettorale. Così è in molti altri paesi, che hanno leggi proporzionali, fortemente proporzionali, o sostanzialmente proporzionali, ma dove la storia ha creato un bipartitismo di fatto. Spagna e Germania, per esempio. Anche qui basta che uno dei due partiti diventi anch’esso neoliberista e il gioco è fatto. In Italia no, non è così. Qui c’è un sistema parlamentare. Le leggi si fanno in parlamento. La rappresentanza è eletta sulla base della scelta da parte dei cittadini, motivata dal complesso di fattori che identificano una proposta politica, sociale, culturale e anche ideologica. La rappresentanza degli interessi, per quanto mediata dai fattori appena detti, è ben visibile e si riflette, almeno per tre decenni e più, direttamente nella linea di condotta dei partiti in parlamento. Soprattutto il gioco politico delle ALLEANZE e degli scontri fra le forze politiche si fanno a valle del voto popolare, proprio nella attività parlamentare. Il che rende deboli i GOVERNI, e cioè esposti a ciò che si muove nella società e si riflette nella rappresentanza istituzionale. Le ALLEANZE sono sempre a geometria variabile perché la realtà sociale che cambia influisce. Come ha fatto l’Italia a diventare la sesta potenza economica del mondo pur cambiando due tre o anche quattro volte il GOVERNO nel corso di una legislatura? Da un punto di vista strettamente strumentale la fase del “circolo virtuoso” si sarebbe bloccata con la legge truffa. Con un parlamento stabilizzato dentro il bipolarismo le lotte non avrebbero avuto la possibilità di incidere, magari determinando la caduta di governi e nuove ALLEANZE fondate sulla base dei nuovi equilibri sociali. E quelle lotte sconfitte avrebbero bloccato il “circolo virtuoso” perché in assenza di aumenti salariali indiretti e garantiti dallo stato (welfare) il mercato interno si sarebbe bloccato. E con esso il sistema. In realtà la stabilità di governo intorno alla DC c’è sempre stata. Il ricambio continuo dei governi, al contrario di tutta la litania cantata per giustificare il maggioritario in Italia (come si fa ad avere un paese che cambia governo due volte all’anno?), è stato proprio uno dei fattori che ha permesso una sostanziale stabilità del sistema, perché la politica e i governi si adattavano e seguivano le mutazioni sociali continuamente. Perché, altrimenti, il popolo italiano avrebbe votato così tanto ad ogni elezione, ben al di sopra della media di tutti gli altri paesi dell’OCSE? Perché con il voto si contava, si sapeva che si influiva sulla realtà economico-sociale del paese e sulla propria condizione di vita. Non si votava per un leader e per le sue promesse demagogiche, tanto meno per orientare il gioco delle ALLEANZE e degli scontri fra partiti nelle istituzioni. Quella dimensione c’era, ovviamente. Ma dipendeva strettamente dal legame della politica e di quella stessa dialettica a tutto ciò che si muoveva nella società. Ed infatti, nonostante tutto, era una dialettica seria, rigorosa, e sebbene molto tecnica e sofisticata, infinitamente più chiara e comprensibile da parte dei cittadini e delle classi sociali rispetto al teatrino spettacolare dei giorni nostri. Le grida e gli insulti, le curve contrapposte, i leader, la demagogia e le “speranze” che sono in grado di suscitare, non hanno reso la POLITICA più chiara e comprensibile, in modo da permettere ai cittadini di scegliere, al momento del voto, sulla base di ragionamenti e di interessi precisi, e sulla base della vicinanza a idee e proposte. Al contrario li hanno fatti diventare sempre più spettatori passivi del “gioco politico” riservando a loro solo il diritto di poter fare il tifo per uno dei due contendenti. Anche per il più tifoso il grado di partecipazione alla formazione delle decisioni e dei veri contenuti delle scelte politiche è stato ridotto quasi a zero. Ma torniamo alla STABILITA’ di GOVERNO. Alla GOVERNABILITA’. Essa diventa il mantra ripetuto ossessivamente per anni e anni. Bisogna, infatti, con una tipica operazione mistificatoria, accompagnare l’indebolimento della funzione di governo, molte delle cui prerogative nella fase del “circolo virtuoso” sono fuggite semplicemente verso le pure dinamiche di mercato, verso organismi internazionali a-democratici e sovrastanti i governi nazionali, verso i privati ai quali si sono vendute le imprese statali, verso la banca centrale europea, verso la finanza (“i cittadini votano ogni tanto ma la borsa vota tutti i giorni” ha detto un noto premier italiano) e così via, al rafforzamento dei poteri del GOVERNO nei confronti del parlamento e in generale della società. In realtà questo rafforzamento del GOVERNO non serve ai “politici” per darsi più importanza. Al contrario di quel che credono molti neofiti adoratori del potere in quanto tale che si mettono la parola GOVERNO e GOVERNABILITA’ in bocca ogni frase che dicono e qualsiasi tema affrontino. Il rafforzamento del GOVERNO è proprio una necessità oggettiva del capitalismo e del modello sociale neoliberista. Esattamente, mi si permetta il paragone, come la guerra lo è per GOVERNARE il mondo trasformato in un grande mercato. Nel sistema del “circolo virtuoso” il compromesso sociale cui era stato costretto il capitalismo, come ho già detto, prevedeva una forte funzione di governo politico e pubblico dell’economia. Ora la funzione è rovesciata. L’economia comanda sulla politica, la orienta la dirige. Quindi c’è bisogno di un esecutore. Di un “amministratore” politico. Non di un luogo di decisione nel quale si media fra interessi anche contrapposti recependo, seppur in forma spesso squilibrata, i rapporti rapporti di forza sociali. Bensì di un luogo dove si amministrano le conseguenze di decisioni “oggettive” ed indiscutibili. I rapporti di forza sociali, le domande, le proteste, le rivendicazioni, sono da tenere fuori dalla porta. Sono incompatibili con la funzione di GOVERNO. E quando le decisioni applicate dal GOVERNO sono talmente stridenti (e cioè capaci di incrinare il consenso elettorale) con la coesione sociale si allargano le braccia e si indicano con l’indice i veri responsabili che impediscono al GOVERNO di ascoltare la società: “l’ha detto il FMI! L’ha detto la Banca centrale europea! L’ha detto la borsa! l’ha detto Marchionne!”. Di più, le rivendicazioni sociali, le lotte, devono diventare impolitiche. Devono cioè, essere impedite di pretendere una qualsiasi cosa che metta in discussione l’economia e le decisioni che il GOVERNO amministra. Per questo gioco il bipolarismo e il sistema elettorale maggioritario sono perfetti. L’alternanza (e non l’alternativa ovviamente) dei governi che condividono le compatibilità del sistema riduce lo spettro delle decisioni cui i cittadini, con le lotte e con il voto, possono partecipare alla mera scelta di chi amministrerà le decisioni del FMI. Dentro questo spettro c’è spazio per scontri epici nei talk show, per contrapposizioni mortali, per colpi bassi di ogni tipo. La realtà sociale deve essa conformarsi a questo spettro, non può pretendere di allargarlo a scelte che possano mettere in discussione il sistema. Se qualcuno tenta di farlo basta dirgli che farebbe cadere il governo in carica favorendo l’altro schieramento. Lo si mette fuori dalla POLITICA in quanto la POLITICA ufficiale ormai è solo la cosa che si occupa di chi amministra l’esistente e delle mille manovre e scontri per sedersi al GOVERNO. Le ALLEANZE non sono sociali fra classi e ceti e settori e categorie che trovano nella ALLEANZA delle rappresentanze e in decisioni proprie del GOVERNO un coronamento politico e la realizzazione di obiettivi concreti. Le ALLEANZE sono coalizioni capaci di conquistare il GOVERNO. Se per caso, come è successo in Italia, per conquistare il GOVERNO è necessario ALLEARSI anche con una forza che propugna il cambiamento e che palesa una CULTURA DI GOVERNO incompatibile con il governo dell’esistente questa viene massacrata. Non dimenticherò mai quando dal 96 al 98 in Europa ci fu un fenomeno per cui tre governi contenevano forze che ponevano una anche solo timida inversione di tendenza rispetto alle politiche neoliberiste. Il governo francese pose problemi al trattato di Maastricht, varò la legge delle 35 ore, solo per dire due cose. Nel governo tedesco il ministro dell’economia che era anche il Presidente della SPD e vice primo ministro tentò di mettere in discussione, in accordo con il sindacato (beato lui), le politiche monetariste della banca centrale tedesca ed europea, e noi chiedemmo al governo che viveva grazie ai nostri voti poche e limitate cose. Nel volgere di pochi mesi Lafontaine fu scaraventato fuori dal governo, noi pure con l’accusa che i libri di testo gratuiti, un piano di salvaguardia ambientale nel sud e le 35 ore (già varate dal governo francese) erano rivendicazioni estremistiche, massimaliste e da “pazzi” (citazione letterale di Prodi), e alla fine il governo francese rimase solo e fu costretto a vivacchiare mentre nel PSF crescerà la destra che alla fine ne sconfesserà l’esperienza.

L’analoga esperienza dell’ultimo governo in Italia è talmente conosciuta e ricordata ancora, che non c’è bisogno di ripercorrerla. E’ un esempio calzante e perfetto. Perfino ciò che c’è scritto nel programma, se un movimento di massa ne richiede l’applicazione, può diventare alla fine di mille trattative e manovre, una richiesta estremistica estranea alla vera politica!

Più chiaro di così si muore!

Perciò, cosa si intende quando si dice che bisogna avere una CULTURA DI GOVERNO? Che i comunisti hanno sempre avuto una CULTURA DI GOVERNO. Cosa vuol dire: dobbiamo porci il problema del GOVERNO? E, alla luce di questo, cosa significa che la politica delle ALLANZE è indispensabile per una forza comunista o di sinistra?

Credo sia evidente, per chi ha avuto la pazienza di leggere questo scritto, che le parole oggi hanno significati diversi da quelli che si tenta di evocare, spesso inconsapevolmente, quando si dice: GOVERNO e ALLEANZE.

Parimenti, se il conflitto è espulso dalla POLITICA, per come essa è intesa nella società e nella funzione reale delle istituzioni, chi vuole rappresentarlo può essere facilmente indotto nell’errore mortale di considerarlo in modo testimoniale. Mica è proibito inneggiare alla rivoluzione. Proporre governi operai. Sognare di aumentare il proprio consenso denunciando il tradimento altrui. E soprattutto non c’è niente di male e non succede nulla se una piccola rappresentanza nelle istituzioni grida slogan e pratica la coerenza nel senso di considerare i voti come puri atti simbolici. Questo si che è SETTARISMO. E’ l’illusione che la predica e l’etichetta data agli altri siano la sostanza della politica. Che basta smascherare il nemico per accumulare forze. Tutto questo è solo l’altra faccia dell’illusione che ci si possa trarre dalle difficoltà con un surplus di politica di ALLEANZE esibendo una cultura di GOVERNO nel senso iperrealista.

Ho a lungo spiegato come il PDS (figuriamoci il PD di cui nemmeno voglio parlare) non sia di SINISTRA. E come ALLEANZE e GOVERNO, con l’accezione che hanno assunto in questa fase neoliberista, per motivi largamente oggettivi e non per il capriccio o limite di questo o quel partito o personaggio, siano termini ormai inservibili e non coniugabili per progettare scelte politiche per cambiare la realtà o anche solo per resistere.

Ma un PARTITO politico comunista o anche solo di SINISTRA, per quanto piccolo e sprovvisto di radicamento sociale, non può abbandonarsi ad illusioni e a confusioni come quelle appena descritte. Sia sul versante delle ALLEANZE e del GOVERNO, sia su quello della testimonianza.

La attuale crisi, come sempre avviene nei momenti veramente cruciali, oltre ai disastri offre anche delle opportunità. Le contraddizioni prodotte dalla fase neoliberista si mostrano chiaramente. Il grado di credibilità degli “amministratori” del sistema decade. Quello degli aspiranti “amministratori” dipende dal grado di coerenza del discorso che fanno con i problemi che sono davanti a tutti. Per quanto mistificatorio sia il discorso deve riconoscere l’esistenza dei problemi, non può ignorarli, ne può promettere per la trecentesima volta in venti anni che con i due tempi verrà quello migliore. Anche qui esiste una oggettività. Una cosa è candidarsi ad amministrare il sistema vigente quando esso è vincente, quando promette e sembra poter mantenere le promesse, quando si lavora in modo precario ma si lavora, in attesa di qualcosa che risolva il problema e così via. Un’altra cosa è farlo nel pieno di una crisi che chiarisce che è il sistema medesimo ad aver creato i problemi e che non può promettere nulla di buono. Ogni lotta incontra immediatamente e chiaramente il nemico. Si poteva promettere con la concertazione che si sarebbe reso competitivo il paese e che, per questo, si sarebbe potuta aprire una seconda fase buona. Oggi non si può più fare con la stessa efficacia. Non è un caso che nel sindacato sorga (o risorga) l’idea della irriducibilità della lotta di classe, come è chiaro nel caso della FIOM. Questo significa, per essere chiaro fino in fondo, che si può sperare in una svolta del PD che lo riconverta ad una lettura di classe della società? Che lo discosti dai settori del capitale che ha scelto come interlocutori privilegiati e di cui difende gli interessi? Penso proprio di no. Tuttavia il combinato disposto dell’estremismo del governo Berlusconi, che è coerente fino in fondo con il progetto di scardinare definitivamente la costituzione e lo stato, per poter gestire le conseguenze della crisi, e la complessità, data anche dalla divisione, dell’opposizione al governo, sia nella società sia nelle istituzioni, segnalano una crisi del sistema politico bipolare. Per questo da parecchio tempo penso, e perciò sono totalmente d’accordo con la proposta conseguente, che senza imbrogliare nessuno, tanto meno se stessi, sul GOVERNO si possa intervenire nella POLITICA UFFICIALE dicendo: “tutti contro Berlusconi ma cambiamo la legge elettorale in senso proporzionale senza che noi entriamo al governo. Il resto che viene dopo si vedrà.” Non “tutti contro Berlusconi, punto!” Non “tutti contro Berlusconi e sul governo vedremo!” Ciò che differenzia queste tre formule non è un dettaglio irrilevante o secondario. E’ sostanza.

Non c’è bisogno che dica perché penso che “andare da soli, tanto è lo stesso chi vince!” o “rifacciamo il centrosinistra che governa con noi dentro” siano proposte completamente sbagliate. Credo che sia chiaro.

Per quanto difficile e stretta sia la via, secondo me è l’unica. Perché ha il vantaggio di coniugare l’opposizione al peggio con il non ingabbiarsi nel meno peggio. Perché apre, per la prima volta da venti anni, una possibilità per dare un colpo alla seconda repubblica e alle conseguenti degenerazioni della politica ufficiale. Perché, banalmente, dal punto di vista strettamente elettorale, è un antidoto al ricatto classico del bipolarismo e ai conseguenti “voti utili” o accordi subalterni contrapposti alla fuga dalla politica.

Nemmeno sul “fenomeno” Vendola ho nulla di nuovo da dire. Ognuno può dedurre da quanto ho scritto il grado di distanza del mio ragionamento da ciò che dice e propone Vendola. Dico solo che la realtà ci dirà chi ha ragione. E spero che la dinamica delle cose chiarisca che la prospettiva del GOVERNO organico del centrosinistra è mortale per qualsiasi SINISTRA, prima che Vendola ed altri si trovino ingabbiati di nuovo in una contraddizione irrisolvibile. E dico solo che con Vendola (mi scuso per la estrema personalizzazione ma nel suo caso le cose stanno così) bisogna trovare ogni unità possibile su obiettivi e posizioni comuni, ma nella massima chiarezza sulla prospettiva. Senza evitare, per ipocriti diplomatismi, di discutere anche in modo polemico, come necessario quando si devono criticare suggestioni con un alto tasso di confusione, invece che proposte chiare e nette.

L’ultimo tema che tratterò in questo interminabile scritto è quello del PARTITO e dell’UNITA’ DELLA SINISTRA.  E solo sul versante dell’immediato. Senza avere la pretesa di risolvere il tema dell’attualità e della riproducibilità o meno del PARTITO DI MASSA.

E’ ovvio che un PARTITO dotato di un minimo insediamento sociale e che contemporaneamente è stato nelle istituzioni nel tempo del successo del neoliberismo e della seconda repubblica nel corso del tempo cambia. E non in meglio. Lasciamo perdere le responsabilità soggettive e le mille polemiche che possono insorgere intorno ad esse. Ho già scritto anche troppo su tutto questo. Atteniamoci a quelle oggettive.

Non è facile mantenersi e conservarsi, figuriamoci crescere e migliorare, quando il “circolo virtuoso” è morto da tempo, la società è stata destrutturata e riorganizzata su un modello che mette i tuoi referenti sociali in un angolo, e il sistema politico (dentro il quale sei comunque) riformato in senso autoritario ed escludente qualsiasi istanza sociale non compatibile col sistema economico, le grandi organizzazioni sociali, a cominciare dal movimento sindacale, sono sempre più collaterali ai governi invece che autonome dal punto di vista di classe. Proprio non è facile. La tua dimensione non è sufficiente ad esercitare una attrazione gravitazionale verso la SINISTRA ed ogni svolta, prodotta da contraddizioni reali, si riflette immediatamente in un scissione. Proprio non è facile.

Sembra quasi che sia impossibile continuare a svolgere una funzione positiva.

Se è vero che la società è stata destrutturata e che l’egemonia della destra si è sviluppata a causa dei fenomeni economici di cui abbiamo parlato, come la perdita di centralità della produzione nel sistema economico, la competitività esasperata, la svalorizzazione e la perdita di dignità del lavoro e tutte le scalate (vere o illusorie) della gerarchia sociale connesse al far soldi con i soldi, proprio ora che la lunga crisi in cui è immerso il paese evidenzia le contraddizioni figlie del modello neoliberista e smentisce le previsioni ottimistiche infondate che per lungo tempo hanno sorretto il consenso del sistema, è il tempo della lotta e della ricostruzione della coscienza di classe fra i lavoratori e nella società.

Questo è il tema del partito sociale.

Con la descrizione del PCI degli anni 50 ho cercato di dimostrare quanto sia falsa, proprio nella migliore tradizione comunista, l’idea che il PARTITO debba essere “sopra” le organizzazioni e i movimenti sociali. Secondo me non lo era un partito con due milioni di iscritti e con sindacato e organizzazioni sociali ben diverse da quelle di oggi. Figuriamoci se lo può essere un partito piccolo con organizzazioni sociali e movimenti in grado di trovare da se nessi, collegamenti e punti di vista generali e che per giunta, per una serie di congiunture, hanno sviluppato nei confronti dei partiti che si presentano alle elezioni una diffidenza tale da scavare con essi un solco molto profondo.

Io penso che la funzione politica, anche di direzione ovviamente, di un partito politico sia insostituibile.

Ma non basta dire: siamo un partito, dunque dirigiamo e tocca a noi fare le proposte politiche (ridotte a quelle elettorali e di relazione fra partiti), e se sono giuste e buone alla fine ci seguiranno. Tanto meno la funzione dirigente si rafforza solo perché si elencano i limiti e le parzialità, che pur ci sono, dei movimenti.

La gran parte dei dirigenti comunisti della CGIL partecipavano, anche dopo l’incompatibilità fra incarichi di direzione sindacali e politici, alla formazione delle decisioni e della linea del PCI. A tutti i livelli, dalla sezione fino alla direzione nazionale. La direzione che il PCI esercitava senza dubbio sul sindacato (per fare l’esempio più chiaro) non veniva dal cielo, per innata capacità del dirigente politico. Era il prodotto di in legame, di una simbiosi, e si alimentava continuamente delle esperienze e del punto di vista che scaturiva dalla pratica sociale diretta. Se non fosse drammatico ci sarebbe da ridere quando si ascolta la ripetizione astratta di formule come “il partito e solo il partito è in grado di avere una visione complessiva e perciò deve lavorare nei movimenti per dirigerli”. O quando si paragona il “partito sociale” alle illusioni del socialismo utopistico o dell’anarchismo. Certamente non mancano semplificazioni, ingenuità ed anche esagerazioni nel descrivere il “partito sociale”. Ma è fuori di dubbio, per me come per moltissimi altri, che senza la faticosa ricostruzione delle lotte, delle esperienze di solidarietà e mutualità, di organizzazione di mille comitati e associazioni è piuttosto difficile pretendere di “dirigere” alcunché. Se non c’è resistenza sociale, e quindi organizzazione sociale, non ci si può opporre con una resistenza politica. Proprio non capisco come si possa dire che la costruzione di un GAP è qualcosa di buono ma che non serve politicamente. Se qualcuno fosse andato a dire, negli anni 50 in una sezione del PCI, che costruire nel paesino una cooperativa di consumo non era lavoro politico, lo avrebbero guardato come un pazzo. Non è lo stesso avere un direttivo di circolo che sa tutto minuto per minuto dei litigi nella giunta e non sa nemmeno quante e quali associazioni ci siano sul territorio, quanti sfratti per morosità ci sono nel quartiere, o un direttivo che è composto di compagne e compagni che hanno una doppia militanza, nel partito e sociale, e che sono in grado di arricchire la discussione e quindi la direzione politica. Non è lo stesso se nelle riunioni partecipano persone il cui unico impegno politico è andare alle riunioni e dire la loro opinione, pretendendo magari di conoscere cosa pensa la gente sulla base di pochi rapporti personali, o se partecipano persone abituate a discutere anche altrove, a fare inchiesta in modo sistematico e ad esprimere opinioni basate sulla pratica sociale. Il partito sociale è quello che è capace, quando c’è la lotta di una fabbrica, di mettere in campo i legami di cui dispone con associazioni culturali, comitati ambientalisti o di scopo, e direttamente con la popolazione per sviluppare una iniziativa in grado di rompere l’isolamento di quella lotta e di farne capire il significato politico a tutti. Perché le lotte operaie sono isolate, ed incomprese, per motivi strutturali e non solo per i difetti del sindacato e della politica. Il partito che si limita a fare delle presenze ai cancelli della fabbrica e che fa una interrogazione nella istituzione del luogo, non è un partito che fa la lotta di classe. È un partito che parla della lotta di classe ma che non può e/o non sa farla. Ed è sempre più sospetto di parlare delle lotte per scopi elettoralistici. Il partito che dedica l’80 % del proprio tempo a discutere della politica separata delle istituzioni e ad esprimere giudizi ed opinioni su ciò che succede, senza partecipare direttamente a ciò che succede, può chiamarsi comunista o di sinistra ma in realtà non è un collettivo capace di fare politica nel senso alto del termine. E non può, come purtroppo succede spessissimo, che avvilupparsi e perdersi in discussioni personalistiche che sfociano quasi sempre in litigi e guerre intestine infinite.

Anche sul tema del PARTITO non pretendo di essere esaustivo. Ho solo insistito, in fondo a tante considerazioni sulle cause economiche e strutturali profonde delle sconfitte sociali e politiche di questi ultimi 30 anni, sul punto che a me pare fondamentale e assolutamente prioritario. Non vado oltre.

Infine, ma anche qui ho poco da aggiungere alle tante cose già dette sul progetto della Federazione della Sinistra, alcune riflessioni sul tema UNITA’ DELLA SINISTRA.

Il giorno che il comitato NO DAL MOLIN, la FIOM, una buona parte delle associazioni di solidarietà sociale, una parte consistente dell’ARCI, i sindacati di base, diverse associazioni culturali e centri sociali antagonisti, il movimento NO TAV, una parte importante dei dirigenti dei movimenti dei diritti civili, femministi e ambientalisti, ed altri ancora discuteranno insieme alle forze politiche della SINISTRA ANTICAPITALISTA, a cominciare da noi, di cosa si deve fare in Italia per almeno qualche anno sia nelle lotte sia nelle istituzioni, potremo dire che abbiamo realizzato l’unità della sinistra. L’unità della sinistra non può essere in nessun modo la somma delle sigle delle forze politiche deboli, sprovviste di radici sociali e dedite solo o prevalentemente alla POLITICA UFFICIALE. Tanto meno può essere il prodotto della suggestione di un “nuovo inizio” magico o addirittura della speranza riposta in un nuovo (ennesimo) leader.

Perciò penso che sia giusta l’idea della FEDERAZIONE DELLA SINISTRA. Individua un campo di forze politiche e sociali sulla base di una discriminante precisa: l’anticapitalismo. Che, sempre se tutto ciò che ho tentato di dire ha anche una minima validità, è imprescindibile per produrre una politica degna di questo nome. Non cancella le differenze ideologiche, culturali e di pratica politica e sociale. Al contrario le alimenta e le valorizza proprio perché le riconosce tutte senza imporre gerarchie e stupidi egemonismi. Assegna all’unità un compito preciso e definito, anche se molto ambizioso. E cioè quello di produrre un programma politico di fase. Un programma, cioè, di lotte e di proposte per il paese che unifichi e dia un indirizzo politico utile per i movimenti e per i settori sociali colpiti dalla crisi. Per questo, e solo per questo, è la dimensione unitaria a dover essere titolare della rappresentanza istituzionale.

La Federazione è già fatta così? Direi proprio di no. Ma il problema è se vuole diventare così o no.

Dire che la Federazione è un passo verso qualcos’altro vuol dire che non si crede sia un progetto strategico. Vuol dire che non si crede possibile unire molto di più senza provocare altre divisioni e disastri.

Io credo che nasce con evidenti limiti ma che ha la possibilità di allargarsi e crescere. Ed è per me ovvio che allargandosi, tanto a livello locale come a livello nazionale, dovrà modificarsi.

Certo molto dipenderà da diversi fattori che al momento non sono prevedibili con qualche certezza. Per esempio una modificazione in senso proporzionale della legge elettorale potrebbe essere decisiva.

E’ chiaro che in quel caso se la SINISTRA sarà libera di dispiegare le proprie politiche al di fuori della gabbia del bipolarismo potrà facilmente trovare e mettere a valore i molti contenuti e proposte comuni. Viceversa, se il bipolarismo dovesse continuare, è chiaro che la collocazione o meno nel centrosinistra di GOVERNO sarà un fattore di divisione insuperabile e finirà per allargare e distanziare sempre più i contenuti che oggi sono ancora comuni.

Ma questo è argomento prossimo a venire.

Fine.

Grazie per l’attenzione.

ramon mantovani

112 Risposte to “Perchè dovremmo dividerci fra settari e governisti? ovvero una lunga dissertazione sul senso delle parole e delle azioni. (2)”

  1. Io come sempre mi ispiro a Garzya, per cui mi dichiaro “completamente d’accordo al 50%”.
    Il ragionamento di Mantovani è condivisibile, solo che secondo me la Federazione della Sinistra NON E’ questo pivot dell’anticapitalismo che tutti vorremmo.
    Per alcuni non lo è ancora – e di ciò si rammaricano – per altri sostanzialmente non lo sarà mai perché non è questo quello che interessa loro.
    Voglio sforzarmi di parlare solo di quello che conosco e che tocco con mano, e soprattutto voglio sforzarmi di NON parlare male del Pdci sennò poi certi compagni mi bastonano.
    Perciò parlo di Rifondazione: l’anno scorso a Palermo abbiamo tentato di far decollare un Comitato Cittadino contro il CaroBus (a Palermo c’è l’abbonamento di gran lunga più caro d’Italia eccetera eccetera, i più assidui lettori del blog ricorderanno sta cosa) : eravamo sia gente NON di Rifondazione, come me, sia carissimi (e splendidi) compagni di Rifondazione che si sono fatti in quattro. Poi la cosa è fallita: NON PER COLPA DEL PRC, beninteso !! Però dire che ai vertici cittadini del Prc gliene fregava qualcosa sarebbe un azzardo. Al massimo volevano organizzare un convegno sui trasporti a Palermo (che poi non hanno organizzato), insomma l’impostazione è sempre un po’ quella lì: tra una grande iniziativa di popolo (che era difficile ma non impossibile) e il convegno, l’istinto rifondarolo ormai corre 90 volte su 100 al convegno.
    Ci vedo una rincorsa alla visibilità mediatica perduta come surrogato della scomparsa dalle Istituzioni.
    E PER FAVORE non rispondetemi: ma che cavolo dici, ci sono centinaia di compagni che si fanno il mazzo di qui e di lì: il punto non è questo e spero che ciò sia chiaro.
    Con la Federazione della Sinistra questo tipo di deriva la si corregge, o peggiora? O rimane tale?
    Ai posteri l’ardua sentenza.

  2. sono andato a vedere tra le risposte di Ramon quanto interessava me cioe’ la faccenda di Turigliatto e della sua espulsione riguardo il voto sulla missione in Afghanistan: non sono d’accrdo per parecchi motivi.
    Il primo e’ che, pur essendo iscritto al PRC da una decina d’anni, (prima gravitavo nell’area dei centri sociali) non considero una cosa assolutizzante la disciplina di partito come come tutte le discipline ( a cominciare da quella scolastica) coarta e inibisce la libera espressione della personalità (in questo sono rimasto fedele al mio giovanile anarchismo).
    Il secondo e’ che anche ammessa la disciplina di partito questa ha sempre avuto delle eccezioni in cui e’ ammessa la liberta’ di coscienza: tradizionalmente i temi etici in cui e’ implicata la vita umana (come non pensare alla fecondazione assistita) sono lasciati alla libertà di coscienza. Ma per me anche la guerra e’ da conisderare tema etico e quindi sottratta all’indicazione di partito e lasciata alla coscienza individuale (costi quel che costi…) Tra l’altro il movimento operaio ha gia’ dovuto vergognarsi dei voti dei suoi rappresentanti nel passato: come dimenticare i crediti di guerra votati dai socialdemocratici tedeschi nella prima guerra mondiale?
    Continuo a ritenere sbagliato l’essere andati al governo nel 2006, sbagliato giustificare in modo capzioso i voti parlamentari sull’afghanistan, sbagliato espellere Turigliatto … le tre cose sono legate e in diretta sequenza logica..

  3. Magari esistono anche altri paesi oltre al sud america che non hanno rinunciato a costruire il socialismo.Lo so che hanno il difetto di avere partiti unici al comando che dicono anche di essere leninisti,ma una possibilità almeno concedila.Esistono anche la Cina e il Vietnam:
    Traduzione dal francese per http://www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

    Contributo del Partito Comunista del Vietnam

    La crisi del capitalismo e la costruzione di un’economia di mercato ad orientamento socialista in Vietnam

    I. La crisi economica mondiale – La crisi del capitalismo

    La crisi e la recessione economica mondiale derivate dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti alla fine del 2007, sono considerate come le più serie dalla Grande Depressione del 1929-1933, in ragione della loro gravità sul piano economico, istituzionale e strutturale. La crisi ha dimostrato il fallimento della teoria economica liberale di matrice statunitense che ha esercitato un pesante e duraturo impatto sull’economia e la politica del pianeta. Le difficoltà e lo sconquasso del settore finanziario hanno coinvolto gli altri settori, come l’industria dei servizi e l’economia reale.

    – La crisi economica sta rallentando, attualmente, e l’economia mondiale è in ripresa, ma essa resterà molto precaria e instabile di fronte alle innumerevoli difficoltà, soprattutto a causa del forte debito pubblico, dei deficit di bilancio senza precedenti, dell’alto tasso di disoccupazione che si attesta attorno al 10% negli Stati Uniti e in molti stati dell’Unione europea. La crisi del debito pubblico in Grecia tende a coinvolgere diversi paesi europei.

    La crisi attuale non è solo una catastrofe per la finanza, il commercio e l’occupazione, lo è anche per le istituzioni e il modello di sviluppo.

    Teoricamente, si può dire che è la crisi del modello capitalista e della sua economia liberista dove l’attenzione è rivolta a promuovere l’attività di libero mercato, favorire la privatizzazione e limitare il ruolo del controllo dello Stato. In realtà, il capitalismo è ora costretto a sviluppare una nuova teoria conforme al cambiamento della situazione.

    La Grande Depressione del 1929-1933 ha significato il crollo della teoria che intendeva l’economia libera, ossia autoregolata dalla “mano invisibile” e che ha portato al fallimento del mercato e all’introduzione della teoria della “economia regolata”, messa a punto da John Maynard Keynes nel 1936. Essa raccomanda l’intervento dello Stato per regolare l’economia. Dopo la crisi economica del 1974-1975, accompagnata da quella grave malattia del capitalismo che è l’inflazione associata alla recessione, la crisi strutturale ha fatto il suo ciclo e anche la teoria keynesiana è fallita.

    Durante il lungo periodo tra gli anni 1980 fino ai giorni nostri, la teoria che ha governato il funzionamento dell’economia degli Stati Uniti ha avuto origine dalla economia di mercato neoliberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La grave crisi economica che ha colpito la più forte economia del mondo ha indotto Greenspan, ex capo della Federal Reserve (FED) e convinto sostenitore della [auto]regolamentazione del mercato libero, a riconoscere il fallimento del modello capitalista orientato a una economia di mercato neo-liberista. Egli ha suggerito che il governo USA emani una regolamentazione più severa della gestione economica, in modo che le istituzioni finanziarie non possano avventurarsi in investimenti a rischio per poi ricorrere al salvataggio del governo. L’assenza di controllo dello Stato nel funzionamento dei mercati finanziari espongono questi al potenziale rischio della crisi.

    – Questa crisi richiede una ristrutturazione dell’economia finanziaria globale, la riforma strutturale del funzionamento delle istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale in modo che possano operare in linea con la nuova situazione.

    La riforma del sistema finanziario internazionale sta diventando sempre più impellente. In effetti, le regole del sistema finanziario internazionale sono state stabilite dai paesi sviluppati e sono caratterizzate da una mancanza di democrazia e trascurano gli interessi dei paesi in via di sviluppo. Il sistema monetario, con il ruolo decisivo del dollaro USA, rivela chiaramente la sua fragilità e questo porta facilmente ad uno squilibrio nell’economia mondiale. Pertanto, si dovrebbe istituire un nuovo sistema finanziario per sostituire il vecchio, nato dalla conferenza di Bretton Woods nel 1944, ormai obsoleto da diverso tempo.

    – La crisi accelera la tendenza graduale verso un mondo multipolare.

    Il rapporto di forza tra le grandi nazioni del mondo, i centri economici e politici continuano a modificarsi in profondità. L’emergere di alcune economie in via di sviluppo, tra le più importanti Cina, Russia, India, Brasile che formano il quartetto BRIC. La posizione internazionale degli Stati Uniti si trova ridimensionata rispetto al passato.

    L’economia globale tenderà a trasformarsi in una economia multipolare in cui, nello stesso tempo, le principali economie coopereranno e si faranno una concorrenza ancora più spietata.

    – Molti paesi si stanno attivamente preparando per il periodo successivo alla crisi. A livello internazionale, i paesi più potenti rafforzano la cooperazione per la ristrutturazione del sistema finanziario mondiale. Nuova caratteristica: l’apparizione del G20 come meccanismo fondamentale per il coordinamento della cooperazione economica globale. Il G20 oscura il G7/G8 e rivela un nuovo equilibrio di forze nell’economia globale. A livello nazionale, molti paesi cercano di imporre quattro riforme contemporaneamente:

    + Una struttura produttiva basata sullo sviluppo delle tecnologie e delle industrie che utilizzino l’energia in modo efficiente.

    + Una struttura di gestione economica attraverso la regolazione del rapporto Stato – mercato, volte all’accrescimento del ruolo del governo per superare le imperfezioni del mercato.

    + Una struttura di mercato tendente a migliorare l’equilibrio tra i mercati nazionali ed esteri.

    + Una riforma di alcuni settori come l’istruzione, l’occupazione e sicurezza sociale.

    L’esperienza storica mostra che, dopo una crisi della dimensione di quella del 2008-2009, il mondo rientra di solito in una nuova fase di sviluppo.

    Il capitalismo sarà obbligato ad adeguare il suo modello e la sua teoria di sviluppo per sopravvivere alle difficoltà attuali. Non è un caso che il “Capitale” di Marx sia stato ristampato e venduto diffusamente in molti paesi occidentali. Marx ha affermato, a proposito dello sviluppo del capitalismo, che la contraddizione fondamentale della produzione capitalistica si sarebbe acuita: “La production manufacturière est devenue un comportement social, un échange et, en même temps qu’un échange, c’est une possession qui, auparavant, a été des comportements de personnes, des comportements d’individus (1)”. Questa è la contraddizione fondamentale tra la natura sociale della produzione e la proprietà capitalista privata dei mezzi di produzione. Questa contraddizione è all’origine di tutte le contraddizioni della società capitalistica, dell’anarchia derivante dalla tendenza a uno sviluppo troppo rapido del sistema finanziario e monetario che separa le merci dal denaro, che genera denaro dal denaro e questo per un valore superiore al costo dell'”economia virtuale”, una “moneta virtuale” senza precedenti. Ciò porta alla crisi. Coerentemente con la teoria del modello socio-economico che considera lo sviluppo della società umana come un processo storico naturale, Marx ha sostenuto che il capitalismo sarebbe inevitabilmente sostituito da un nuovo modo di produzione, superiore e più avanzato, il modo di produzione comunista con la sua fase iniziale che dovrebbe essere il socialismo.

    Tuttavia, in condizioni di globalizzazione, di rapido sviluppo della rivoluzione scientifica e tecnologica, l’economia basata sulla conoscenza ha assunto una posizione primaria e il capitalismo contemporaneo ha continuato ad adeguarsi a livello nazionale, regionale e internazionale utilizzando gli strumenti necessari e le misure di coordinamento tra le nazioni per superare la crisi. In generale, le possibilità di sviluppo dei paesi capitalistici sono ancora alte, ma le contraddizioni insite nella produzione capitalistica non potranno sopravvivere a lungo. Nel processo di sviluppo, questi conflitti si sono intensificati notevolmente.

    II. Il Vietnam supera l’impatto della crisi e costruisce con fermezza il socialismo

    Con una politica adeguata, il Vietnam ha superato l’impatto della crisi economica globale. La crescita economica del Vietnam è proseguita nel 2009 con il 5,32%, il paese ha mantenuto la sua stabilità politica e sociale, migliorato il tenore di vita dei suoi abitanti e ottenuto successi notevoli nella riduzione della povertà. Dall’introduzione, oltre 25 anni fa, della politica del Doi Moi [rinnovamento], l’economia di mercato si è progressivamente formata, sviluppata e promossa in modo efficace all’interno della società.

    Prima del Doi Moi, il Vietnam ha applicato il meccanismo della pianificazione centrale, costruendo il socialismo sul modello della ex Unione Sovietica e dei paesi dell’Europa dell’Est. In tale modello, la proprietà privata e individuale è svilita, l’obiettivo principale è quello di sviluppare rapporti di produzione che rendono l’economia chiusa, estranea alle convenzioni internazionali sul lavoro, che non sviluppa adeguatamente i servizi, che trascura lo sviluppo delle relazioni merce-denaro e i fattori di mercato nell’economia. Questo modello non soddisfa le nuove condizioni e la sua applicazione precipiterebbe il paese in una profonda crisi socio-economica. Durante il periodo di Doi Moi, il punto di vista e la percezione dell’economia di mercato sono gradualmente migliorate, ben oltre le condizioni stabilite dal Congresso del Partito.

    Il 9° Congresso Generale del Partito (aprile 2001) ha formalmente introdotto il concetto di economia di mercato con orientamento socialista, affermando che lo sviluppo di questo tipo di economia rappresentava la linea politica coerente e un modello generale nel periodo di transizione al socialismo nel Vietnam. Questo è un nuovo modello nella storia di sviluppo che ha caratteristiche in comune con l’economia di mercato moderna, oltre a sue peculiarità specifiche per le condizioni del Vietnam.

    Erede dell’elaborazione del 9°, il 10° Congresso ha ulteriormente chiarito i contenuti di base per apportare i necessari miglioramenti all’economia di mercato con orientamento socialista sotto vari aspetti: con piena consapevolezza dell’orientamento socialista dell’economia di mercato nel nostro paese, rafforzando il ruolo e l’efficacia della gestione di Stato, sviluppando in modo sincronizzato ed efficace la gestione dei mercati principali con un meccanismo di concorrenza leale, dando forte impulso ai settori economici e ai tipi organizzazione aziendale idonei a trasformare il Vietnam in un paese a industrializzazione avanzata entro il 2020.

    L’orientamento socialista di sviluppo dell’economia di mercato nel nostro paese poggia su quattro criteri principali:

    In primo luogo, il suo obiettivo: creare nel nostro paese un’economia di mercato con orientamento socialista.

    In secondo luogo, nella direzione del suo sviluppo: lo sviluppo dei settori economici e dell’affermazione del ruolo preminente dell’economia di Stato.

    In terzo luogo, nel suo orientamento sociale e nella distribuzione: per sostenere il progresso e l’uguaglianza sociale in ogni fase di sviluppo. La crescita economica deve essere strettamente collegata allo sviluppo sociale, culturale, educativo e per soddisfare l’obiettivo dello sviluppo umano.

    In quarto luogo, nell’ambito della gestione: promuovere il ruolo di un potere o di una legislazione socialista nella gestione e nel coordinamento dell’economia sotto la guida del Partito: chiara espressione dell’orientamento socialista.

    L’elaborazione teorica sull’orientamento socialista dell’economia di mercato in Vietnam si è rivelata adeguata in sede di applicazione ed è progressivamente diventata realtà. I risultati di sviluppo economico e sociale negli ultimi anni lo hanno chiaramente dimostrato. Oggi, il Partito Comunista del Vietnam discute il programma di edificazione del paese in questo periodo di transizione al socialismo e una strategia di sviluppo socio-economica per il 2011-2020 in previsione dell’11° Congresso Nazionale del Partito, che si terrà nei primi mesi del 2011. Ha deciso di sviluppare in Vietnam un’economia di mercato secondo i suoi principi e di crescita sostenibile basata sulla ricerca di una combinazione tra prosperità economica, soluzioni ai problemi sociali e tutela e protezione dell’ambiente, mantenendo un forte orientamento socialista in questa fase di transizione, protesa all’obiettivo di “un popolo prospero, di un paese forte, di una società egualitaria, democratica e civilizzata”.

    Professore Tran Nguyen Tuyen
    Commissione centrale per le Relazioni estere

    [1] K.Marx et F.Engels, Collection, no.19, National Political Publishing House, Ha Noi, 1995, page 331

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  4. Caro Ramon,
    tra tutto questa analisi a me interessa anche la parentesi: come tentò Lafontaine, da Ministra dell’ economia della Germania di imporre un’ inversione di tendenza nelle politiche liberiste? cosa propose di preciso?

    Inoltre, per i Giovani Comunisti, invece di lasciarli a dire solo cazzate fra di loro (sappiamo benissimo che fanno poco altro e servono solo nelle battaglie interne fra correnti), si potrebbero organizzare durante l’ anno dei corsi di formazione o scrivere dei testi su ciò che tu ritieni, a ragione, deva essere patrimonio di tutti i militanti, cioè i modi ed i tempi d’ implementazione della dottrina liberista in Europa

  5. luca marini Says:

    x Alfonso Geraci: ti ho riconosciuto dallo stile. I contenuti della lunga dissertazione devo rileggermi un po’!

  6. Costruire un GAP non ha, di per sè, alcun significato politico: si tratta di una cosa fattibile dal Prc o dalla Caritas. D’altronde esistevano le cooperative legate al Pci, ma anche quelle legate alla Dc…

    Un Gap diventa politico solo nel momento in cui rientra in un progetto complessivo, che investe tutti gli ambiti politici (territorio, lavoro, istituzioni…) ed è chiaramente percepito dalle classi di riferimento. Il Prc non ha questo progetto – al contrario, ci sono addirittura dirigenti nazionali che predicano la separatezza tra livello istituzionale e sociale. Si tratta delle teorie revelliane sul “terzo settore”, che col suo volontarismo dovrebbe addirittura creare una alternativa al capitalismo (!!!).

    Il risultato, per farla breve, è che i GAP sono diventati un alibi per fare qulche slogan su “mutualismo” e “confitto”, senza occuparsi di politica (cioè di alleanze e rapporti con le altre forze politiche). E così la gente fa la scelta più razionale: viene al GAP per risparmiare qualche soldo, ma nelle urne vota per chi ha la speranza di incidere e combinare qualcosa di utile nelle istituzioni. E quindi NON vota certo per noi. Questo dato è riscontrabile dappertutto: il nostro consenso non è mai aumentato grazie all’attività del “partito sociale” (esempio eclatante vedi il voto in Abruzzo, dove eravamo presenti con le Brigate di solidarietà). Al massimo abbiamo tenuto un po’ di più in alcunee zone dei GAP rispetto ad altre. Ma il nstro trend discendente è costante, ed è dovuto all’isolamento, all’impotenza e alla mancanza di linea politica per uscire da questa condizione minoritaria.

  7. caro alfonso, ammesso che le cose in città siano andate come dici tu questo dimostra solo che c’è bisogno di una battaglia politico-culturale per smetterla di fare politica in quel modo. e lo stesso vale per la federazione della sinistra. da tempo sostengo la tesi per cui a SINISTRA si è persa la bussola e che l’unità delle forze politiche sociali anticapitaliste è un processo e non una semplice somma di sigle. però bisogna giudicare dai documenti il progetto. e i documenti sono chiaramente un indirizzo per andare nella giusta direzione.
    un abbraccio

  8. no caro pietro, gli anarchici hanno sempre avuto una disciplina. discutevano liberamente ed esprimevano tutte le loro opinioni, ma una volta decisa una azione di lotta o una occupazione non si sognavano nemmeno che c’era la possibilità per ognuno di fare come voleva. se si decide, dopo lunga e libera discussione, di votare contro il governo che si è appoggiato fino a quel momento è libertà votare a favore? e chi è titolare della decisione? quelli che stanno nelle istituzioni o il partito? è perfino banale la risposta. invece sembra che per alcuni il parlamento è il luogo nel quale fare ciò che gli pare. quseta non è libertà. questa è una prepotenza di chi si sente al di sopra del collettivo che, per altro, l’ha eletto. mica si vince un concorso per entrare in una istituzione. si è candidati ed eletti da un collettivo. o no?
    che la questione della guerra sia una questione di coscienza è una boiata da tutti i punti di vista. è una questione politica di primaria importanza. i problemi etici inerenti la fecondazione assistita, invece, possono dar luogo a problemi di coscienza.
    i crediti di guerra votati dai socialdemocratici furono la conseguenza della scelta di essere a favore della guerra, di rompere l’unità del movimento operaio secondo gli interessi delle rispettive borghesie.
    noi siamo stati e siamo contrari alla guerra in afghanistan. questo non è in discussione.
    il resto è ben spiegato in ciò che ho scritto.
    e io non ho scritto che in fondo la guerra in afghanistan non era così male e che noi abbiamo cambiato opinione. al contrario.
    se c’è qualcuno che ha fatto demagogia sull’afghanistan per motivi che con l’afghanistan non c’entravano niente questo è stato turogliatto, che infatti non è stato espulso per aver votato contro il decreto. perché il decreto l’ha votato come ha votato la fiducia al governo.
    e allora…. dov’è la questione di principio? dov’è?
    un abbraccio

  9. caro bosco, come puoi verificare nell’analisi ci sono molti punti di sintonia con ciò che ho scritto io. tuttavia non credo si possa risolvere il problema mettendo la parola socialista vicina a quella del mercato. l’economia di mercato, quando poi si aderisce al wto come la cina, è qualcosa di incompatibile con il socialismo. in america latina ci sono paesi che nazionalizzano e in cina e viet nam si privatizza. il G20 è un altro colpo mortale all’ONU. ed è esattamente la prosecuzione della decisione di liberalizzazioni e privatizzazioni in un numero maggiore di paesi. ma il G20 non ha regole, non è retto da nessun trattato, ed è solamente dominato dagli USA. il pil dopo le liberalizzazioni del mercato non è più lo stesso di prima. se un marchio famoso apre uno stabilimento in viet nam, per inseguire la manodopera al prezzo più basso del pianeta, perché lo stato ha garantito all’impresa che per dieci anni non pagherà tasse, per il permissivismo ambientale e di sicurezza sul lavoro, e poi esporta in europa e negli usa il 95 % delle merci che produce in viet nam perché sono caduti i dazi doganali, il pil del viet nam cresce molto ma in viet nam non rimane altro che salario da fame e basta.
    l’asean non è paragonabile al progetto dell’alba.
    le cose sono un po più complesse di quel che dice l’articolo citato da te..
    in ogni caso ripeto che io mica ho scritto un saggio esauriente e complessivo. infatti sull’america latina c’è solo una fugace citazione. che è pertinente per l’argomento del mio articolo.
    o vuoi sostenere che non è una novità che paesi interni totalmente al sistema capitalistico ne vogliano uscire? certamente cina e viet nam hanno introdotto l’economia di mercato e il capitalismo dove non c’era. o no?
    ciao

  10. caro gio, non so risponderti con precisione. perché ho solo fatto uso della mia memoria. ricordo bene che noi discutemmo del tentativo del governo francese e di quello tedesco, su iniziativa di lafontaine, di rimettere in discussione i capisaldi delle politiche monetariste e neoliberiste. ma non ricordo con che elenco di provvedimenti e in che tempi. del resto non vennero attuati. e sono passati 12 13 anni. farò un ricerca appena potrò. ma potresti farla anche tu.
    quanto a quel che hai scritto sui gc ho già detto mille volte che non è questo il modo di discutere.
    ciao e un abbraccio

  11. egregio palmiro, aprire vertenze sui prezzi, denunciare le speculazioni delle filiere lunghe, contrastare la cattiva qualità dei cibi e di altre merci, e spiegare anche l’irrazionalità del sistema che affama miliardi di persone non è politica? sarebbe carità?
    invece fare un comunicato ogni 15 minuti per rispondere alle infinite dichiarazioni di tutti i galletti che cercano visibilità, parlare di alleanze senza sapere nemmeno cosa significa oggi la parola sarebbe politica?
    nessun, tanto meno io, teorizza la separazione della società dalla politica istituzionale. ma se c’è e col bipolarsimo c’è enormemente, bisogna criticarla e superarla, per esempio con la battaglia per cambiare la legge elettorale. non far finta che non ci sia e starsene comodi a giocare a risiko con il pd e gli altri.
    ma dubito che tu possa essere d’accordo con queste cose basilari.
    del resto pensi che le lotte si devono fare solo se portano voti.
    ciao

  12. Caro Ramon, vedo che distorci le mie posizioni. Sei in difficoltà? O eri semplicemente distratto, e ti è sfuggito qualcosa?

    Io ho riassunto il ragionamento che fanno, di solito, le persone a cui ci rivolgiamo. Lo semplifico ancora per chiarezza.

    Se la forza politica X dice cose giuste, ma è isolata e impotente nello scenario politico, allora votarla significa sprecare il voto. È molto più razionale sostenere la forza politica Y, che magari dice cose meno giuste, ma col suo peso politico ha la speranza di realizzarne qualcuna – e in ogni caso argina meglio la destra.

    Ovviamente, se la forza politica X organizza feste e iniziative, o porta aiuto e salsicce alle occupazioni, è molto bello e positivo. Ma che c’entra questo col voto? Queste cose si possono fare anche stando fuori dalle istituzioni: ci sono già moltissimi gruppetti e gruppettini di sinistra che agiscono in modo vertenziale, e non si presentano mica alle elezioni. E a maggior ragione, se nelle istituzioni la forza X è isolata e impotente, allora votarla “per simpatia” si fa impegnativo. E se magari ci sono da superare anche degli sbarramenti elettorali…

    Dici che le cose sarebbero diverse se ci fosse il proporzionale? Può darsi, ma uno sbarramento alto potrebbe comunque segare una forza debole e isolata. Ma questi son ragionamenti che andranno fatti quando (anzi, se) ci sarà una legge proporzionale…

    Dici che secondo me le lotte vanno fatte “solo se portano voti”. Hai capito male, dovresti prestare più attenzione. Il punto è che una forza politica che declama mille lotte e rivendicazioni, ma resta isolata e incapace di portare risultati, perde credibilità – anche se dice cose giustissime. Basta pensare al consenso che hanno forze come Lotta Comunista, o il Pcl, o Dp (ai suoi tempi).

  13. Caro Ramon posso concordare con te che socialismo e mercato non stanno tanto bene insieme,ma neanche la Nep era socialista allora,però ho qualche difficoltà a pensare a Lenin come a un costruttore del capitalismo,altrimenti viva Stalin.Quello che si dovrebbe spiegare è come mai nei paesi socialisti non si riusciva neanche a produrre a sufficenza beni di largo consumo.Per quanto riguarda il G20 non credo che gli Stati Uniti facciano il bello e il brutto tempo, nel G7 era possibile,lì non è così pacifico.Un’ultima cosa,concordo con te sul fatto che negli USA non è l’economia a determinare tutto,ma questo vale a maggior ragione per la Cina.Come direbbero Lenin e Mao è la politica(stategica)al comando.Ecco quello che dovremmo fare:riportare la politica al comando,ma come dici bene nel tuo post qui la polica è serva dell’economia,aggiungo allora che questo e tipico dei paesi dominati,dove l’economia e la finanza sono a loro volta serve della potenza dominante.Ecco perchè liberarsi dal dominio statunitense è la precondizione per provare a cambiare qualcosa.Tenendo presente che i servi politici,dei servi economici,in questo paese è il centro sinistra.

  14. AnnaRed Says:

    Caro Ramon, mi sembri un po’ disinformato sulla Cina.

    Chiedi (retoricamente): “certamente cina e viet nam hanno introdotto l’economia di mercato e il capitalismo dove non c’era. o no?”

    Ebbene, per quanto riguarda la Cina la risposta è “no”. Pensa che le stelle della bandiera cinese rappresentano l’unità delle 4 classi sociali principali (operai, contadini, piccola borghesia, capitalisti patriottici) attorno al programma del Partito Comunista (stella più grande), forgiata dalla rivoluzione (colore rosso di sfondo).

    Il capitalismo in Cina è sempre esistito, con un ruolo variabile in base alla linea adottata dal PC e dal governo. Inizialmente aveva un ruolo marginale, in un sistema economico totalmente pianificato in stile sovietico. Le riforme introdotte da Deng Xiaoping, ispirate alla NEP di Lenin, hanno sancito un cambiamento epocale, con l’obiettivo di far sviluppare il paese (i poveri son passati, dal ’79 ad oggi, da 250 milioni a 20 milioni – per Joseph Stiglitz si tratta del più grande processo di emancipazione dalla miseria della storia dell’umanità.). Ma, proprio come la NEP, e come fatto notare da bosco, queste riforme non hanno mai messo in discussione il primato dello Stato e della politica suil’economia.

    Dopo tanti anni di luoghi comuni e percezioni distorte (in gran parte pilotate dalla stampa occidentale), persino il New York Times si è accorto che “the reforms of the first 20 years, from 1978 to the end of the ’90s, actually did not touch on the power of the government”, che “[on] the list of the 100 largest publicly listed Chinese companies, all but one […] are majority state owned”, e che “officials had always intended to create a vibrant state sector that would tower above the private sector in important industries, even as they sold off or shut down money-losing state enterprises that drained capital from the government budget and banking system”. L’articolo completo è qui: http://www.cnbc.com/id/38910346

    Inutile che chiunque abbia minimamente seguito i media cinesi, e la discussione politica del PC e del governo cinese negli ultimi anni (su Internet si trovano moltissime fonti in inglese) non è certo stato colto di sorpresa da queste “rivelazioni”.

    Non mi esprimo sul Vietnam, su cui sono meno informata. Ma mi risulta che il suo trend sia molto simile a quello cinese.

  15. Ciao Luca!!
    Caro Ramon, certo bisogna giudicare dai documenti, ma non solo. Ci sono riflessi condizionati che scattano puntualmente in direzione della mediaticità spicciola e dell’istituzionalismo, e non penso di essermeli sognati, ben al di là della vicenda che raccontavo (che è stata di portata minima, e comunque esemplifica non solo e non tanto il Prc cittadino quanto tutta un’area che tende ormai a mobilitarsi solo come ala sinistra del grillismo e del dipietrismo).
    Da questi vizi ci si libera solo con un’iniziativa politica autonoma e caratterizzata, e che, almeno nelle metropoli del sud, dev’essere per forza centrata sui servizi fondamentali negati, altrimenti non ci si allargherà mai di un centimetro rispetto alla base sociale, per l’appunto, del grillismo e del dipietrismo (a Palermo la protesta sul carotrasporti si è esaurita rapidissimamente, senza riuscire a coinvolgere i quartieri).
    Tutto questo, si capisce, relazionandosi sempre alla realtà anche politica, come dici tu, però con altre parole d’ordine e con un impianto meno politicista di quello, per esempio, del pezzo di odierno di Salvi sul Manifesto.

  16. Ma adesso Ramon che pure Fidel castro ammette il fallimento del modello economico cubano che si fa? cade anche il mito cubano….

  17. Anna Red: scusa, ma non hai mai sentito parlare di capitalismo di stato?
    La NEP era “un passo indietro” fatto dai bolscevichi in attesa che scoppiasse la rivoluzione in tutto il mondo, cosa che notoriamente poi non “fu”. Era una svolta che più provvisoria non poteva essere.
    E’ impensabile, ridicolo parlare di una NEP in Cina che dura 32 anni !!
    Che in Cina i lavoratori siano sfruttati – talvolta brutalmente – dallo stato e non dai privati è importantissimo dal punto di vista analitico, ma non può ribaltare il giudizio politico da parte di noi comunisti, che in fondo siamo solo “la parte (che si sforza di essere) più cosciente dei lavoratori in lotta”.

  18. Fidel appoggia il tentativo di Raul Castro di attuare una serie di riforme verso un socialismo di mercato (o capitalismo di stato, come lo chiamava Lenin) con caratteristiche cubane. L’obiettivo è rilanciare la competitività e la produttività dell’economia cubana, aumentando il benessere generale. Il modello di riferimento, ovviamente, è la Cina.

  19. Caro alfonso, la NEP fu instaurata perché, vista l’impossibilità della rivoluzione mondiale in tempi brevi, era indispensabile che il socialismo portasse maggiore benessere e sviluppo all’intero paese. Altrimenti sarebbe stata solo una socializzazione della miseria, sarebbe aumentata la guerra tra poveri e (per citare Marx) “con la lotta per il necessario e si ripresenterebbe quindi tutta la vecchia merda”.

    Il governo cinese ha riapplicato la stessa logica, seppur con un punto di vista diverso rispetto a quello sovietico: è criticato per aver voluto bruciare le tappe e instaurare il socialismo in tempi irrealistici (passando rapidamente dalla NEP all’industrializzazione accelerata, per poi fossilizzarsi aumentando inefficienze, arretratezza e malcontento popolare). La Cina si considera un paese socialmente e culturalmente arretrato, in via di sviluppo e ad uno stadio primordiale di transizione verso il socialismo, e dunque in una fase tale da poter trovare spinte progressive anche nelle forze che spingono lo sviluppo capitalistico: ovvero, ricerca del profitto personale e concorrenza. Ma queste forze, anziché conquistare il potere, operano in una cornice stabilita e regolamentata dal partito comunista la governo.

    Noi comunisti occidentali abbiamo sicuramente idee migliori e più avanzate rispetto ai compagni cinesi: d’altronde basta vedere tutto ciò che abbiamo conquistato e non perduto, tutti i paesi che governiamo, e l’enorme consenso popolare di cui godiamo.

  20. caro palmiro, è chiaro che la pensiamo in modo diverso. è anche per compagni come te che io penso che sia il caso di smettarla di usare certe parole come “alleanze” come se fossimo negli anni 50 e come se il sistema politico fosse sempre lo stesso. il senso di quel che insistendo scrivi qual’è?
    siamo isolati e dunque invece che ricostruire legami sociali dobbiamo meglio navigare nella politica ufficiale discutendo di alleanze. risultato di questo modo di pensare è che le lotte le devono fare organizzazioni della società civile e poi farsi dirigere dal partito che lui si che se ne intende di politica.
    ma è proprio questa separazione tra sociale e politico che è nefasta per chi vuole proporsi di cambiare la realtà sociale e superare il capitalismo. altri partiti del leader o interclassisti e banalmente borghesi in questo sistema sono del tutto coerenti e compatibili con lo stesso. se noi li imitiamo dedicandoci solo alla politica separata diventiamo un partito come gli altri e conseguentemente paghiamo un prezzo altissimo anche dal punto di vista elettorale.
    ma, ripeto, è evidente che la pensiamo in modo diverso.
    ciao

  21. AnnaRed: La NEP NON era “il socialismo”, ma – ripeto – “un passo indietro” (Lenin) per far guadagnare i contadini e far mangiare i cittadini. Non è in alcun modo un gradino della transizione essendo, per l’appunto, un passo indietro.
    Socializzare la miseria è gran brutta cosa, ma industrializzare e basta sfruttando la gente a più non posso per decenni con il socialismo non c’entra NULLA. In Cina i lavoratori non decidono, non contano, scioperano a loro rischio e pericolo, quando e se possono. Statalizzazione non è socializzazione delle forze produttive. Quello cinese è un sistema che sarebbe compatibile pure con un monarca “illuminato” (doppie, triple virgolette) e voglio vedere che cosa diranno quelli che la pensano come te quando il PCCinese deciderà che tutto sommato non vale manco più la pena di chiamarsi comunisti, che c’è il rischio che qualcheduno vada a leggersi Marx. “Transizione interrotta” perché hanno cambiato nome? Scusa ma Mao non diceva che il partito può cambiare colore nei fatti anche se non lo cambia nell’iconografia?
    Si capisce che in epoca-Marchionne è facile ironizzare sulle conquiste perdute; ma resta il fatto che nella vecchia Europa i lavoratori godono di tutta una serie di diritti – conquistati a caro prezzo e mai elargiti, beninteso – che altrove non ci sono. Non perdiamo il senso della misura.

  22. caro bosco e cara annared, ho già detto che nell’articolo ho solo fatto un breve riferimento alla novità rappresentata dal gruppo di paesi latinoamericani che vogliono costruire l’ALBA e promuovere politiche economiche alternative al capitalismo. perciò, ho detto a bosco, che non è pertinente parlare delle esperienze cinesi e vietnamite, giacché li c’è l’implementazione del capitalismo. con ciò non mi sono mai sognato di dire che sono paesi capitalisti e punto. meritano una discussione seria e approfondita. che però non si può fare a suon di citazioni improprie, come quella della NEP. che non c’entra nulla con il permettere alle multinazionali di investire in paesi dove è garantito un prezzo della forza lavoro bassissimo, dove tutto è defiscalizzato, dove ci sono leggi sull’ambiente risibili e dove è perfino garantita la repressione di eventuali lotte sindacali. che non c’entra nulla con l’indicare il modello capitalistico come quello da implementare con la parola d’ordine “arricchitevi”. che non c’entra nulla con i rapporti della cina con l’asean. che non c’entra nulla con gli enormi problemi sociali connessi alla ristrutturazione delle aziende pubbliche secondo i criteri capitalistici. in cina decine di milioni di persone hanno perso il posto nelle aziende pubbliche. che per competere con quelle private sul mercato “socialista” hanno ridotto notevolmente il personale. ma con la conseguenza che quelle decine di milioni di operai e impiegati delle aziende pubbliche hanno anche perso la casa, l’assistenza sanitaria, spesso la scuola per i figli, giacché gran parete dei servizi nell’economia pianificata cinese erano garantiti dalle imprese e non direttamente dallo stato. ed è per questo che nel pcc dopo due decenni di ristrutturazione delle imprese pubbliche hanno cominciato a porsi il problema della creazione di un welfare di stato. che non c’entra nulla con l’appartenere al WTO perché appartenere al WTO significa firmare accordi commerciali ultraliberisti. e potrei continuare a lungo. ma, appunto, dico solo cose che evidenziano che esistono molti problemi e che non basta risolvere tutto con qualche citazione, tanto più se di compiacenti “ammiratori” del modello cinese come il new york times.
    io non ho la pretesa di risolvere la questione ed infatti non ho scritto un articolo su questo tema. ma mi piace discutere con senso e spirito critico e non facendo l’apologia di stati e partiti solo perché governati da partiti comunisti (che per altro hanno modificato lo statuto per rendere compatibile l’essere capitalisti e iscritti e dirigenti del partito).
    infine, caro bosco, evidentemente non sai che cos’è il G20. è una riunione INFORMALE (senza obblighi e diritti e doveri degli stati che partecipano). è cioè l’idea che i sette più ricchi invitano altri ricchi e/o “importanti” per prendere insieme orientamenti comuni allo scopo di rendere stabile il sistema finanziarizzato e liberalizzato del capitalismo attuale. è l’uccisione dell’ONU.
    ma, ripeto, non ha molto senso affrontare così una questione così grande e complessa.
    un abbraccio ad entrambi.

  23. caro alfonso, ti ripeto che ciò che ho scritto sul partito sociale nell’articolo va esattamente nel senso che dici tu. ma bisogna sapere che c’è da combattere la malattia e curare il malato. perché essendo moltissimi totalmente egemonizzati dalla cultura dominante (e questo vale per i politicisti come per quelli che pensano che basti dire lotta sociale per aver risolto ogni problema) combattere le persone “malate” non cura la malattia bensì uccide il “malato”. ci vuole molto tempo e molta pazienza. bisogna evitare di promuovere divisioni fra compagni del sociale e compagni del politico. come quella fra settari e governisti.
    ti, ripeto, infine, che è meglio fare esempi astratti e generici che parlare di una realtà precisa per il semplice motivo che è sconosciuta ai lettori e a me stesso.
    un abbraccio

  24. Caro Ramon, continui a distorcere il mio pensiero. Anche io ho scritto che sociale e politico non vanno separati, perchè un partito politico ha il dovere di fare una sintesi tra i due ambiti. Ovvero, trovare la linea, le alleanze e i compromessi che permettano di dare uno sbocco politico ed un risultato concreto alle istanze sociali.

    Tu invece scrivi che ormai la politica è degenerata, è tutto un magna magna, quindi bisogna stare in splendido isolamento, e agire solo nelle vertenze – come un qualsiasi movimento o collettivo. Qualunque persona sana di mente capisce che a fare così son bravi tutti, che si trovano sempre scuse e differenze per non combinare nulla, e che questo è totalmente inutile: significa praticare NEI FATTI la separazione tra politico e sociale, impedendo ogni sbocco del secondo nel primo. La gente non è stupida, lo capisce, e infatti il nostro consenso, dopo due anni di impotenza “in basso a sinistra”, è in calo a vantaggio di SEL (che pure non ha militanti nè strutture nè radicamento paragonabili ai nostri).

    Tu dici che “la pensiamo diversamente”. Cioè, tu credi che cittadini e lavoratori di sinistra ragionino diversamente da come ho scritto? E come?

    Io non la penso come loro, perchè sono comunista e sostengo il mio partito. Ma non sono cieco nè idealista, e mi pongo il problema del consenso dal punto di vista dei cittadini che dovremmo conquistare, e non dal punto di vista di un membro di una setta autoreferenziale.

  25. ma come si fa a discutere di Cuba sulla base delle illazioni giornalistiche conseguenti ad una frase di fidel castro?
    ovviamente non ha parlato di fallimento ne di modello cinese.
    la frase è “il modello cubano non va più bene nemmeno per noi:” ed è la risposta alla domanda: “lei pensa che il modello cubano possa andare bene per altri paesi'”
    quando ci saranno decisioni e provvedimenti di legge e quando saranno spiegati e chiariti da documenti seri ne parleremo.
    parlarne sulla base delle interpretazioni interessate della stampa ostile a cuba è una fesseria.
    per altro nella stessa intervista ha criticato il presidente iraniano esortandolo a smetterla di pronunciare frasi antisemite. e recentemente si è fortemente autocriticato per le proprie responsabilità nella persecuzioni degli omosessuali a cuba negli anni 60.
    che si stia schierando anche castro per la guerra contro l’iran? che stia diventando un liberale?
    sarebbe ora di smetterla di discutere così. come nel più cretino talk show.

  26. Caro Ramon, le tue posizioni sulla Cina sono simili a quelle dell'”opposizione operaia” che dopo la rivoluzione russa si opponeva alla NEP, perché la riteneva una restaurazione del capitalismo e un nuovo sfruttamento dei lavoratori. Le risposte di Lenin a queste critiche restano ancora oggi, in buona parte, attuali.

    C’è poi un fatto interessante, ovvero la questione dei “bassi salari” in Cina. La sinistra occidentale (quella anticomunista, ma a volte anche quella comunista) ha una concezione complottistica secondo cui i bassi salari sembrerebbero una scelta del cattivissimo governo cinese che opprime i lavoratori. Ovviamente le cose non stanno così: il livello dei salari è inevitabilmente legato al PIL pro capite. Se il PIL pro capite di un paese è basso, i salari saranno necessariamente bassi. Questo vale per tutti i paesi, arretrati e non. Il PIL pro capite della Cina è oggi meno di 1/10 rispetto a quello degli Stati Uniti. Il governo cinese ha giustamente pensato di modificare le proprie leggi in modo che questa condizione attraesse investimenti esteri. L’idea era quella di sfruttare le dinamiche proprie del capitalismo, in un contesto controllato, per portare benessere e sviluppo economico e sociale tramite l’aumento del PIL, del PIL pro capite e dei salari. L’alternativa era il mantenimento dell’arretratezza e la “socializzazione della miseria” che Marx ha giustamente criticato in modo sprezzante.

    Questo approccio ha funzionato? Basta vedere l’andamento dell’Indice di Sviluppo Umano (Human Development Index, HDI) della Cina. L’HDI è una misura usata dall’ONU, alternativa al PIL, per quantificare lo sviluppo di un paese tenendo conto di fattori quali scolarizzazione, occupazione, assistenza sanitaria, aspettativa di vita, partecipazione democratica, ecc. in 30 anni è passato da un livello simile a quello medio dei paesi africani (cioè molto sotto la media asiatica) a un livello ben superiore alla media dell’intera Asia. Inoltre l’HDI cinese è ben al di sopra di quello di altri paesi con un PIL pro capite di pari livello, ma privi di un governo socialista – come l’Egitto. Chi è curioso trova tutte le statistiche qui: http://hdr.undp.org/en/

    Questo processo non è certo stato indolore, ed è inevitabile che, in un paese grande quanto un continente e con 1 miliardo e mezzo di abitanti, qualsiasi mutamento (anche minimo) coinvolga decine di milioni di persone. Per valutare un fenomeno occorre sempre tenere a mente il dato complessivo, e non focalizzarsi senza metodo su singoli aspetti: questo può essere utile per la polemica spicciola, ma non per la comprensione reale dei fatti.

    Vi segnalo infine questo articolo di Vladimiro Giacché, pubblicato sul Fatto Quotidiano, che risponde ai vari luoghi comuni sul disprezzo cinese per i diritti dei lavoratori e la salvaguardia ambientale: http://www.sinistrainrete.info/estero/995-vladimiro-giacche-la-nuova-cina-che-abbiamo-sottovalutato

    Il socialismo di mercato (o il capitalismo di stato) non è il socialismo (nessuno l’ha mai affermato), ma è sicuramente un passo in avanti rispetto al capitalismo, alla socializzazione della miseria e al socialismo di guerra che fu instaurato in Russia prima della NEP. E’ sicuramente un “passo indietro” rispetto alle convinzioni della Russia post-rivoluzionaria (che prevedevano un passaggio diretto dal socialismo di guerra al comunismo, tramite la rivoluzione mondiale). Ma come si vide, queste convinzioni non si conciliavano con la realtà.

    Comunque chiudo qui gli interventi sulla Cina, perché giustamente Ramon ha scritto di aver solo accennato, e di non voler ora approfondire la questione: è una scelta saggia, specie in mancanza di una adeguata preparazione.

  27. Ramon, ben detto sulla Cina.
    Sul partito sociale /partito politico: facciamo che la prova del budino è mangiarlo, per cui nei prossimi mesi vedremo. Ok?

  28. Massimo Della Chiarezza Says:

    Interessante l’articolo del Corriere di oggi sull’accordo già siglato da Diliberto e Ferrero per entrare nelle liste del PD in cambio di un voto per Bersani alle primarie contro Vendola.
    Molto interessante.
    Qualcuno può smentire, per favore?
    Oppure, qualora fosse reale, può per favore spiegre l’alchimia geniale dell’operazione? Escludendo il fatto del bisogno della seggiola in Parlamento.
    Grazie

  29. Sì, massimo della chiarezza, ma se cerediamo ad ogni fesseria dietrologica che viene scritta sui giornali borghesi più dei documenti congressuali nostri è finita. Tanto vale levare mano e diventare tutti degli autonomi

  30. ah non solo il solo ad evidenziare il gossip ma appunto Ramon scriverà
    ” ma come si fa etc..” comunque per sicurezza le segno tutte poi si vedrà Ramon…
    comunque è roba da delirio entrare nelle liste del PD

  31. dinoluciasml Says:

    Ah compagni,lo dovremmo sapere bene che le bugie hanno le gambe corte. Difatti la smentita è arrivata(ovviamente)puntuale,sia da parte di Ferrero che di Salvi a nome della FdS.Facendo la tara su questio”caso”,vuoi vedere che la proposta fatta dal nostro segretario,qualora si dovesse andare alle elezioni anticipate,di una alleanza democratica per cacciare questo governo, per la difesa della nostra Costituzione e del cambio della legge elettorale,senza far parte del governo,sia giusta e che tutto questo incomincia a dare fastidio a qualcuno la quale non trova di meglio che mettere in giro voci assurde(in questo caso il”corriere della sera”)?Sappiamo bene come lavora certa stampa nazionale nei nostri confronti,ritenendoci dei residuati della storia ed estremisti.Il nostro handicap purtroppo è l’assoluta mancanza di visibilità,su questo gli “altri”ci marciano che è un piacere.Ultima cosa,ammesso e non concesso che Ferrero o altri avessero paventato un qualsiasi accordo, con Bersani in questo caso,non ne avrebbero dovuto discuterne con i propri organismi dirigenti?Non se sarebbe dovuto discutere con tutto il corpo del partito/i?Perciò, abbiamo già tanno dànno,non creiamocene dell’altro”lor signori”non aspettano altro!

  32. Francesco Says:

    Vorrei evidenziare al sig.Massimo della Confusione che è stato tutto smentito:da Salvi,da Ferrero,da Diliberto e dal PD.La notizia dal corriere online èstata rimossa in poche ore.
    Solo un “cuculo” come Massimo della Confusione poteva caderci oppure massimo della confusione è in malafede….nell’uno e nell’altro caso la chiarezza non gli appartiene.

  33. Francesco Says:

    Ovviamente il post precedente vale pure per il tal Richi….Richi chi? Quello di Happy Days? Ti consiglio di fare la controfigura perchè di politica capisci meno del mio cane Silver.

  34. caro palmiro, io sostengo che la politica è degenerata. non che è un magna magna e che bisogna agire “solo” nelle vertenze. rileggiti tutto ciò che ho scritto e trovami, per favore, dove avrei detto che bisogna agire solo nelle vertenze e stare in uno splendido isolamento.
    se ti ostini a pensare che fare lavoro sociale non serve ad un bel niente non so che farci. se dico che la politica è degenerata è perché il combinato disposto della ristrutturazione capitalistica della società e il maggioritario hanno trasformato istituzioni e politica ufficiale. nell’articolo ho scritto, magari male, ma con dovizia di esempi e particolari come è cambiata la politica. come è cambiata la sinistra e come sono cambiate le istituzioni. non sei d’accordo? confuta queste tesi. ma non far finta che siamo negli anni 50 o 60 o 70 e che nulla è cambiato, tranne le percentuali di voto dei partiti.
    se dici alleanze e non capisci che oggi per il governo dovresti allearti con chi vuole fare esattamente l’opposto (ed infatti così hanno fatto tutti i governi di centrosinistra) di quel che c’è bisogno di fare, per il banale motivo che noi tentiamo di avere in testa gli interessi delle classi subalterne e il pd ha in mente marchionne e la confindustria e il sistema finanziario, non so che farci.
    se pensi che per avere voti bisogna fare come il pd non so che farci.
    ciao

  35. cara annared, se metti un post con più di un link il sistema lo blocca e me lo sottopone per l’autorizzazione. quindi in futuro mettine uno solo e se ne vuoi mettere due pubblica due post distinti.
    appena avrò un po di tempo leggerò tutto e risponderò. abbi pazienza. ora non posso.
    un abbraccio

  36. caro alfonso, va bene. mangiamo il budino. del resto è ciò che avevo detto. bisogna cambiare e riformare il partito. ma bisogna sapere bene qual’è l’origine e la forza oggettiva della degenerazione che ha investito la cultura politica di moltissimi militanti. denunciarne i difetti continuamente provoca solo scontri e radicalizzazione delle posizioni. non serve a cambiare nulla.
    un abbraccio

  37. caro massimo della chiarezza, fai cattivi servizi al tuo nick. evidentemente non sai nemmeno leggere i giornali. e perciò chiedi smentite su fatti inesistenti. quando ho letto il corriere mi è venuto da sorridere. ed ero sicuro che avrebbero smentito una simile cazzata.
    anche un bambino capisce che se il corriere, sulla base di un articolo del direttore di europa chiaramente fatto delle solite dietrologie, amplifica la “notizia”, senza aver nemmeno sentito il bisogno di verificare la fondatezza della “notizia” c’è qualcosa che non va.
    io non so perché abbiano fatto così. se fossi come loro direi: menichini ed “europa” che nel dibattito politico non contano nulla si inventano la “notizia” per far parlare di loro. oppure: essendo contrari a fare un accordo elettorale con noi intorbidiscono le acque.
    ma io non sono come loro.
    non faccio dietrologie.
    prendo atto della loro superficialità (ed anche della cretineria). la stampa in italia, come i talk show, funzionano così.
    tempo fa ho messo un esempio inconfutabile sui commenti della repubblica dei risultato elettorali in germania che lo dimostrano.
    prendo atto che il corriere, nel mentre intervista ferrero che spiega come stanno le cose (ma qui la notizia non c’è perché è noto a tutti quale sia la nostra proposta) introduce nell’intervista (e non a caso lo mette nell’occhiello del titolo) per l’ennesima volta la questione dei brigatisti rossi.
    quindi, egregio massimo della chiarezza, impara a capire con un minimo di senso critico cosa e come scrivono i giornali.
    ciao

  38. eh già, mantovani, questa volta son d’accordo con te, quella riportata dal corriere è una cazzata. Però, aggiungo, io, purtroppo. Siamo realisti: la possibilità di superare lo sbarramento (in particolare al senato), visti gli ultimi sondaggi, è dubbia, anche in coalizione. La scelta di non sostenere vendola, che infiamma qualunque platea dove ci sono persone di sinistra, appare totalmente incomprensibile, o peggio, motivata da antichi rancori. Un accordo con il pd per ricostruire una pattuglia di deputati e senatori (e qualche soldo!) sarebbe stata una buona idea, finalmente. Ma, non sia mai detto, sarebbe in contrasto con la vera aspirazione delle segreterie di ferrero e diliberto: passare alla storia come quelli che hanno sciolto i partiti comunisti in italia.

  39. massimiliano piacentini Says:

    Ciao Ramon,
    sono appena rientrato in italia e ho letto velocemente i tuoi nuovi contributi. Purtroppo devo rileggerli su carta per poter dire cosa ne penso. Intanto, però, ti ringrazio per essi, considerato che come minimo hanno il pregio di elevare e non di abbassare il livello delle discussioni e delle analisi.
    saluti comunisti

  40. Afro guarda che l’unico o meglio gli unici a voler sciogliere i comunisti in Italia sono il Vendola che osanni tanto e Occhetto compagno di partito di Vendola in Sinistra e libertà.
    Auspico una sinistra unita ma attenzione a chi ci si imbarca

  41. Alla fine, praticamente, per molti compagni/e tutto, anche la personale agibilità politica, rimane in mano al Potere, che scegliendo il bipolarismo piuttosto che il proporzionale vincola ogni (“nostro”) movimento… mah! Se storicamente i comunisti (che per esteso son rivoluzionari!!!) avessero subito così fatalisticamente il proprio presente saremo ancora legati non alla legge elettorale ma al giogo dei buoi…. Già, il Potere – cioè, gli uomini e le donne in carne ed ossa che ne distendono le trame godendone il privilegio – che vince nel momento in cui gli altri uomini e le altre donne che lo subiscono ne interiorizzano la normalità patendone la disfatta, tirando avanti come se la miseria e il suo contrario fossero elemento naturale della società umana. Soprattutto, il Potere che vince quando le sue “parole d’ordine” codificano i comportamenti, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, vincolando gli individui ai rapporti di dominio e controllo esistenti. Basta osservare che fine ha fatto la partecipazione politica nel nostro Belpaese: volutamente la Politica (o la Realpolitik) ha allontanato da sé il proprio oggetto (le masse) per controllarne, dall’alto dello scranno, il movimento. Per rendere tutto ciò che alla politica è riconducibile, refrattario, inutile, sporco, disgustoso. Per ridurre l’intensità dello scontro ai soli addetti ai lavori. E noi, in questo caso soprattutto Rifondazione, si è stati non a guardare (magari!) bensì a partecipare questa discesa agli inferi. Un gioco al quale non sappiamo giocare che alla fine ha dilaniato e dilapidato un patrimonio di esistenze: per che cosa? Per la più banale delle storie politiche: da una parte, la poltrona, dall’altra, la presunzione di usare il proprio unico punto di vista quale metro collettivo di azione e analisi (vedi i Bertinotti, Vendola, ma anche Ferrero ecc.)…. Comunque sia, allo stato attuale, l’imperativo per il Potere è quello di fare ciò che gli pare (barzellette ed escort comprese) tenendo gli “umori” popolari lontano dall’unico strumento in grado di minarne le fondamenta. A differenza che in passato dove qualche problemino i compagni lo hanno sempre posto!… Però, poiché c’è sempre un però, ogni strategia predispone un margine di errore….. Per quanto paradossale, la disaffezione alla politica, sancendo la scissione politicamente inconscia, ma, effettiva, del sociale dal politico, apre gli spazi per una lotta che dall’antipolitica ritrova il suo significato originario: il potere proletario che riconosce e disconosce il feticcio intorno al quale ruota l’ingiusta redistribuzione di privilegi e fatiche (il “caso” Grillo è illuminante). A ben vedere, nell’astensionismo galoppante, nelle sezioni di partito vuote, nel rigurgito dell’impegno militante tradizionale, si possono scovare gli spazi entro i quali estendere la propria azione liberatrice. Nella società, nella sua insoddisfazione e malessere, si percepisce un tirarsi fuori che sa di accusatorio nei confronti di un sistema incapace di soddisfare i bisogni e valorizzare la partecipazione. La critica della politica, o meglio il rifiuto del potere che dentro il parlamento – con le sue variabili di maggioranza e opposizione – è sintesi della sua perpetuazione, non può che iniziare dalla ricollocazione della progettualità rivoluzionaria liberata dai tatticismi dell’assimilazione. Come comunisti, e per esteso come persone votate a cambiare in meglio la società, bisogna avere la consapevolezza che si deve ricostruire la propria forza partendo dalla ristrutturazione della propria identità comunista declinata al contesto storico nel quale nostro malgrado ci troviamo a vivere. Essere rivoluzionari significa avere la capacità di capire le peculiarità del presente e di esserlo anche rispetto alla propria “tradizione”, rompendo quegli schemi consolidati e inadeguati a promuovere le istanze rivoluzionarie. Il riferimento è alle modalità con cui ogni volta ci si appresta alle scadenze elettorali, quasi sia strategico parteciparvi costi quel che costi. E’ evidente come l’elettoralismo abbia permeato talmente le coscienze dei comunisti italiani (e europei in generale) da trasformare la tattica in strategia; ma, ancor di più lo è il rischio di essere accomunati e uniformati ad un sentire sociale sempre più diffuso, che identifica tutti i simboli racchiusi dentro una scheda elettorale con quella cosa “sporca” che è diventata la rappresentanza politica istituzionale. Ovviamente, essere comunisti dovrebbe significare essere altro dagli altri, se; le nostre liste non possono essere assimilabili al carrierismo clientelare o alla incoerenza che trasborda da destra a “sinistra” e così è, nonostante sempre più frequenti eccezioni tra gli “eletti”….. ma siamo sicuri che questo sia percepito nella stessa misura anche nella società?

    Non dobbiamo essere astensionisti di principio, né rifiutare la possibilità di partecipare alle competizioni elettorali, dobbiamo però farlo quando questo ritorna utile alla Causa. Attualmente, al contrario, si rischia semplicemente di legittimare quel sistema marcio che noi per primi critichiamo e riconosciamo esser tale. La forza di gestire una scadenza elettorale è data non solo dalle idee, ma dal radicamento territoriale e sociale effettivo e reale che gli uomini e le donne che compongono il Partito hanno nel territorio. Altrimenti rimane in piedi né più né meno che un operazione nostalgica e simbolica, che cammina sulla testa anziché sui piedi. Ed è ora pure di finirla con la malintesa tiritera per cui anche Lenin e Gramsci avevano tenuto aperta la possibilità parlamentare….. Che diamine! I comunisti hanno ovviamente sperimentato l’opzione parlamentare, ma in un contesto che dopo duemila anni di niente era nuovo e dunque praticabile nei termini di sperimentazione. Ma oggi; oggi la rappresentanza istituzionale è la desolante autoassoluzione che permette ai padroni e ai governanti di non essere definiti dittatori. Non si deve trascurare, inoltre, che buona parte dell’astensione oggi è praticata proprio da quelle punte avanzate di proletariato stanche del balletto strumentale che nulla cambia e niente trasforma. Anche a queste “avanguardie” disperse dovremo parlare; poiché, si deve essere consapevoli che la costruzione di un partito comunista, in grado di affrontare le sfide del presente, passa per l’accumulazione delle forze e degli individui che già, ideologicamente, si identificano in quell’area. Pensare che con l’ennesima lista elettorale si possa conquistare la militanza di chi è disgustato dalla deriva elettoralistica degli ultimi vent’anni, significa insultare l’intelligenza di chi, in questi vent’anni, ha creduto che qualcosa si poteva ricostruire anche partendo da una solida base elettorale. L’esperienza di Rifondazione è stata la spallata definitiva ad un modo di fare politica che comunque, tra l’assenza di analisi e la mancanza di coerenza, andava rivisitato nel merito e nel metodo. Ben venga la possibilità di presentare delle liste! Anche alleandosi con le altre componenti dell’arcipelago comunista e della sinistra di classe in generale. Ma che queste siano la traduzione di un riconoscimento sociale e politico esistente laddove ci si presenta (riconoscimento tra la gente, si intende!). Non so come la pensiate, cari compagni/e, ma a mio avviso e per quello che è il mio punto di osservazione, dovremo preoccuparci più di riallacciare rapporti sociali in un territorio che non ci conosce e riconosce che non di raccogliere firme per la presentazione delle liste. Sarò più chiaro: laddove non è possibile saltiamo il turno e promuoviamo l’astensionismo militante e critico. Laddove possibile invece presentiamoci, ma che i nomi siano identificativi di una pratica reale e non semplici “tappabuchi” per raggiungere un malinteso obiettivo. Bisogna saper portare pazienza…

    …..”Quando il ribelle incappa nella Poltrona del Potere, la guarda attentamente, la
    analizza, ma invece di sedervisi va a cercare una lima per le unghie e con eroica pazienza
    lima le gambe della poltrona fino a che, secondo lui, diventano tanto sottili in modo da
    rompersi non appena qualcuno si siede”…..

    Sicuramente, un primo passo da fare consiste nel recuperare la politica al sociale attraverso il progetto – tutto da elaborare – e la sua attuazione. Restituendo alla militanza politica, la dignità della lotta e costruendo le coscienze che fin da subito si muovono in direzione di un cambiamento che non c’è, ma è già in essere…… La ricollocazione/ricomposizione della progettualità rivoluzionaria, dunque, non può che ricominciare da un’azione tanto incisiva quanto liberata dai tatticismi dell’assimilazione. Vale a dire, costruendo giorno per giorno il fronte dello scontro senza seguire sempre i tempi e le priorità scandite dalle strategie dello Stato-Capitale – le sue formule, che imbrigliano l’agire influenzandone non solo le pratiche, persino il linguaggio – per esser chiari, entrando nell’ottica di una lotta senza spazio alcuno per il “realismo” della mediazione. Sotto questo aspetto, si tratta di far chiarezza. La società contemporanea viaggia veloce e supera sorniona il nostro parlare annacquato nel marasma di riflessioni che il sistema multimediale produce. Come spiegare altrimenti la distanza che giocoforza ci separa da quel popolo del quale noi, più dei nostri governanti, facciamo parte e col quale non riusciamo a comunicare?! Suona strano, ma nell’era della comunicazione, dove le distanze si bruciano in un megabit, viene difficile consolidare nuove forme di organizzazione di classe. Ancor più, nello scontro in atto contro uno Stato che per stare al passo della competizione internazionale si ritaglia il proprio ruolo guerrafondaio e imperialista. Il bandolo della matassa, al dunque, non risiede certo nell’affinamento dell’ars oratoria, quanto nel significato che la nostra azione trasmette nell’istante in cui le idee si mettono in marcia; si tratti dei momenti di agitazione e propaganda che la militanza impone, dei cortei o della solidarietà attiva ai proletari in lotta. D’altronde, non c’è consapevolezza della propria appartenenza a questo mondo che non presupponga il quesito dell’azione; come pure non vi è obiettivo che non presupponga il problema del mezzo per afferrarlo. Per quanto banale sia sottolinearlo, agire vuol dire comunicare, e sebbene qualunque cosa si intenti contro lo Stato-Capitale sia positiva, è bene anche valutarne l’impatto veicolandone il messaggio affinchè nessuna mistificazione possa alterarne la portata e lo scopo. Farlo con la consapevolezza che ogni passo debba lasciare l’impronta chiara e definita – il contenuto – per chiunque voglia seguirne il cammino. Ciò a significare che ogni agire deve necessariamente produrre risultati immediati e visibili, parziali, se si vuole, ma concreti e di rottura, con un respiro più ampio della semplice denuncia. Un buon inizio è accordarsi su quali siano gli argini entro i quali far scorrere le pur molteplici contraddizioni che ne contraddistinguono il percorso. Soprattutto, se questi permettono di ritagliarsi l’autonomia e l’agibilità politica, non solo fisica, per mezzo della quale distinguersi da qualunque forma politica istituzionale.
    E se non saremo noi a godere del pane e delle rose, potremo sempre scrivere nuove pagine di ribelli che non si fanno calpestare.

  42. caro antonio, scusami che te lo dico, ma leggendo nel tuo post il richiamo all’astensionismo militante mi viene davvero da pensare che la nostra vicenda politica è finita. Qualche anno fa ce la ridevamo tra compagni per un titolo di un giornale che forse qualcuno di voi conosce, “il bolscevico”, organo del partito marxista leninista italiano. Quel titolo diceva “un milione di persone in piazza allo sciopero: grande successo del pmli, vendute due bandiere”. Ecco, la mia impressione è che fra qualche anno ci troveremo anche noi a dire lo stesso.
    con affetto, carlo

  43. … con lo stesso affetto, che ricambio, ti rispondo che a mio avviso “fra qualche anno” è adesso…. a meno che non si esca dal guado nuotando controcorrente…

    … più di quello dell’anedotto, trovo patetico il titolo esultante di Liberazione all’indomani della seconda vittoria di Prodi… alla prima andava dato il beneficio del dubbio!…

    … riguardo alla “nostra” vicenda politica, penso che possa finire o rinascere o come Lavoisier per la chimica trasformarsi in un nuovo inizio… la “nostra” vicenda infatti è un’avventura… e quando i comunisti perdono questo spirito diventano noiosi e talvolta pericolosi…

    … ho comunque una certezza: non sarebbe nè un inizio nè qualcosa di nuovo qualunque allenanza organica o disorganica col centro sinistra… infatti, loro sono qualcosa di molto vecchio: è dai tempi di Publio Varinio che calcano le scene….

    un saluto comunista

  44. bravo Ramon che non ti adatti al costume di esprimrsi per brevi slogan ed evitare pensieri lunghi.
    Ora ho letto la prima parte, domani la seconda

    giorgio

  45. massimiliano piacentini Says:

    Cari compagni,

    questo nuovo contributo di Mantovani è semplicemente prezioso ed è tale per diversi rispetti. Intanto si può certamente affermare: ecco un’analisi! Ecco una lettura del reale complessa, che rifugge dalle facili semplificazioni e che, soprattutto, inquadra il presente all’interno del più ampio processo storico e non considera la politica un compartimento stagno, un mondo a sé. I processi politici sono infatti strettamente legati alle evoluzioni sociali e capitalistiche. Si possono trarre fra le righe alcune questioni di metodo che, secondo me, sono fondamentali: “leggere i fenomeni politici senza indagarne i nessi con il sistema economico, con la rappresentanza di interessi e con le dinamiche sociali è foriero di gravi abbagli”.

    Condivido pienamente l’analisi di Mantovani. La condivido nel merito e soprattutto nel metodo, che per me resta la cosa più importante. Ritengo che il procedimento usato abbia illuminato con sufficiente efficacia il nostro presente e anche le varie discussioni avvenute su questo blog. Se le conclusioni a cui giunge il ragionamento erano per me scontate (nel senso che ormai conosco benissimo, ad es., la sua critica e al politicismo governista e al settarismo testimoniale letti come facce diverse della medesima forma mentis) ora è assai più chiaro il ragionamento che le fonda e sostiene. Sempre sul metodo, mi piace sottolineare il seguente passo: “Se invece che analizzare i contenuti della politica praticata si giudicavano le forze secondo concetti e parole ormai dal significato cangiante….”. Esso mi ricorda tanto l’impostazione marxiana del 18 Brumaio e noi abbiamo bisogno di questa musica, di questa disciplina, di questa razionalità. Altrimenti rimaniamo vittime dei leader, degli illisionisti, degli imbonitori di ogni sorta. Bisogna combattere invece tutto ciò che richiede il sacrificio dell’intelletto, per poter intendere e agire. La storia, al contrario di ciò che vogliono far credere e che Hegel aveva annunciato già tanto tempo fa, non è affatto finita. Di più: la nostra storia è piena di futuro!

    Caro Ramon, c’è solo un punto sul quale secondo me sei troppo ottimista. Scrivi: “Per quanto mistificatorio sia il discorso (degli AMMINISTRATORI) deve riconoscere l’esistenza dei problemi, non può ignorarli, né può promettere per la trecentesima volta in 20 anni che con i due tempi verrà quello migliore. Anche qui esiste un’oggettività”. Ma non esiste alcuna oggettività fuori del soggetto e se questo è stato quasi ammazzato, come si vede bene anche solo leggendo alcuni post qui sopra, il nodo non può essere sciolto e la luce non può essere accesa. Cosa sta facendo infatti il Pd in questi ultimi giorni? Non sta forse riproponendo proprio lo stesso imbroglio? E cosa fa Vendola se non questo? Hai ragione quando dici che non basta denunciare il tradimento o sottolineare gli errori o la malafede del Pd. Certo che non basta, tantomeno se ciò si rivolge alla fine contro di te. Dici giustamente che l’ideologia dominante, il neoliberismo, decreta la morte delle ideologie e questo è esatto. Ma è ovvio che essa stessa non è che un’operazione ideologica e che dunque la critica dell’ideologia resta un’operazione utile e necessaria, anche se non sufficiente. Per il resto, l’accordo non potrebbe essere più pieno.

    Poi, non c’entra apparentemente nulla, ma apprendo leggento uno dei tuoi post che per fare politica attiva hai “rinunciato ad insegnare dopo aver vinto un concorso, e” che hai ” fatto il parlamentare senza cambiare di un grammo stile di vita e frequentazioni, come sa benissimo chi (ti) conosce da molto tempo, ed ovviamente senza arricchir(ti) minimamente”. Mi spiace molto che a seguito di contributi validi e generosi uno debba poi anche parlare dei suoi casi personali e privati quasi a dover giustificare la propria esistenza e il proprio diritto alla parola. Avrei tanta voglia di mandare affanculo questi provocatori idioti, questi vigliacchi che si nascondono dietro al computer e dietro nomignoli. Ma non lo farò. Voglio dire a tutti che forse dobbiamo smettere di rispondere a questi personaggi: lasciamo che si parlino addosso.

    Ciao, grazie, massimiliano.

  46. luca marini Says:

    Ramon per quel che possono valere le sensazioni, la mia è che la nostra proposta politica e cioè l’accordo elettorale con il Pd o grande alleanza democratica è oggi priva di respiro. Non sembra raccogliere interesse da parte delle altre forze di sinistra, quelle forze “a sinistra del pd” che si dice di voler aggregare allo scopo di costruire la sinistra di alternativa. Da una parte PCL e Sinistra critica e altri ci criticano perchè vedono in questo accordo una riedizione della desistenza del 96-98. SeL ci cirtica perchè considera la nostra proposta come un tentativo di ricreare un alleanza tra i soggetti che costruirono l’unione. Ora però, mentre PCl e sinistrica critica mi sembra una prposta ce la fanno, invitandoci fin da subito a costruire una sinistra alternativa ai due poli, Sel e il suo “capo” tirano avanti per la loro strada puntando tutto sulle primarie e sul successo appunto del “capo”. Noi da questo punto siamo nel mezzo ma da quel che vedo continuaiamo a parlare di offensive unitarie con sinista e libertà. E qui proprio non ci vedo niente di buono. Credo che i tempi di tale offensiva siano già belle che saturi, perchè perseverare in questa strada visto che Sel comunque non mette in discussione il centrosinistra e lo schema bipolare?
    In questi mesi e settimane si può osservare che il conflitto sta riprendendo e a me sembra molto più forte e frontale di qualche mese o anno fa, come leggere d’altronde la forte presa di posizione della fiom o le mobilitazioni dei precari della scuola, i fischi e le contestazioni a Bonanni, Ichino e compagnia bella. Non credo siano sintomi leggeri, ci vedo piuttosto una critica aspra non solo verso il governo, ma contro le misure antisociali che più settori dei poteri forti stanno portando avanti. Le lotte stanno riprendendo vigore e penso che noi non siamo preparati a intercettarle con la dovuta attenzione. Il quadro bipolare segna crepe profonde il PD e il PDl si stanno dilaniando al loro interno e non penso sia frutto di torsioni e litigi interni quanto il portato della crisi e delle sue contraddizioni. A mio modo di vedere sarebbe più giusto provare a costruire un polo alternativo ai due poli in crisi, saremo più pronti ad offrire una sponda politica ai soggetti in lotta adesso e nei mesi a venire. Ripeto penso che la proposta dell’alleanza democratica rischi di lasciarci a lungo in panne e non solo noi.

  47. Le questioni di tattica non mi competono, non essendo io del Prc: però sul medio-lungo termine, e parlando di tutta la sinistra di classe nel suo complesso, mi sa che Luca dice giusto, e che stiamo sottostimando l’importanza di un polo alternativo, chiaramente alternativo.
    Che poi potrebbe essere un QUARTO polo, se oltre a Bossi-Berlusconi e a Bersani-Di Pietro-Vendola emerge pure il “partito Montezemolo” o più esattamente il “polo Marchionne” se sarà caratterizzato dalla proposta della “cultura della povertà” fatta propria dall’AD Fiat.

  48. cara annared, ti devo una risposta. e scusa il ritardo.
    come ho già detto non era mia intenzione scrivere per provocare e fare una discussione sulla cina o sui possibili modelli sociali ed economici connessi al superamento del capitalismo. sempre ammesso che per superare il capitalismo sia necessario introdurlo dove non c’è e sempre ammesso che il capitalismo si possa considerare un mero strumento per aumentare lo sviluppo. ma ci torneremo.
    ribadisco, a scanso di equivoci, che non pretendo di esaurire un simile tema. sia perché non mi ritengo all’altezza sia perché certamente non sarà una discussione su un blog a risolvere problemi che sono giganteschi.
    alcune e poche cose, però, le dirò. in modo sintetico.
    1) la prima questione è metodologica. io penso che sia necessario avere un approccio critico a tutto, figuriamoci alle politiche di uno stato e di un governo come quello cinese. per approccio critico intendo che non si possono leggere e ripetere i documenti prodotti da chi fa certe scelte prendendoli per oro colato. senza fare processi alle intenzioni, nè nel senso negativo (dicono di essere comunisti ma in realtà non lo sono e sono solo capitalisti mascherati) né in senso positivo (implementano il capitalismo ma lo fanno a fin di bene), perché con questi due approcci si finisce di discutere di tutto tranne che del cuore dei problemi e soprattutto si finisce con il non vedere la verità intrinseca che c’è in entrambe queste posizioni. se sono capitalisti venduti quando fanno qualcosa che non va d’accordo con questo giudizio semplicemente basta dire che è la dimostrazione che sono imbroglioni. e se sono comunisti costretti ad implementare il capitalismo qualsiasi cosa inaccettabile facciano è sempre “il fine che giustifica i mezzi”. e quindi in questo modo la discussione finisce li. con due tifoserie contrapposte che non possono dialogare e capirsi ma soltanto scomunicarsi a vicenda. so che questo modo di discutere va di moda. ma io non mi adeguo. mi spiace ma non mi adeguo.
    quindi, cara annared, non basta citare i dati (ma soltanto alcuni) della crescita del pil cinese o quelli dello sviluppo umano (molto interessanti ma soltanto alcuni). tanto meno basta citare le lodi che i neoliberisti tessono della cina.
    2) dopo questa premessa torno a chiarire che io nelle precedenti risposte ho solo citato cose che sono contraddittorie e problematiche. in risposta alla vulgata secondo la quale la cina è la speranza del comunismo. perché a sorreggere questa tesi c’è solo il fatto che ci sia un partito che si chiama comunista al potere. dubito che se le stesse cose le facesse un governo che si dice liberale il giudizio che alcuni danno sarebbe lo stesso.
    la differenza starebbe nelle intenzioni proclamate e nella descrizione della realtà da parte di chi la governo. ma facendo così si può incorrere nell’errore (e quanti lo hanno commesso!) di credere all’analisi della realtà sovietica che faceva il pcus solo pochi anni prima del crollo o che faceva lo stesso pcus di gorbaciov pochi mesi o perfino giorni prima del crollo. è troppo facile dopo il crollo cercare gli errori commessi o addirittura imputare ad un capro espiatorio o a un complotto il crollo. forse anche il pcus avrebbe dovuto ascoltare le critiche (e ce ne erano molte ispirate da una intenzione costruttiva e certamente di sinistra comunista) invece che rispondere sprezzantemente “noi abbiamo fatto la rivoluzione e abbiamo costruito il socialismo reale, voi non l’avete fatta e parlate di un socialismo immaginario, ipotetico”. chi pensa che un crollo simile sia imputabile ad una persona o a un complotto semplicemente ha una concezione talmente debole del comunismo da doversi rassicurare in modo consolatorio.
    3) secondo me non si può in nulla paragonare la nep con ciò che si sta facendo in cina da trenta anni a questa parte. il capitalismo non è lo stesso. l’imperialismo non è lo stesso. anche qui bisognerebbe scrivere un saggio. ma ce ne sono decine che chiariscono dal punto di vista strettamente marxista che la crescita a dismisura della mole del capitale finanziario rispetto al capitale impiegato nella produzione di merci, la internazionalizzazzione e concentrazione del capitale in imprese transnazionali, le politiche monetariste (che ho cercato di descrivere nel mio articolo, anche se solo sommariamente), il fatto che una delle principali caratteristiche che permettevano (lenin) di individuare uno stato come stato imperialista, e cioè la propensione ad esportare capitali non si può applicare agli usa che sono importatori di capitali all’ennesima potenza, la dittatura di organismi come il FMI, la banca mondiale, il WTO, e potrei continuare a lungo, sono condizioni che non si possono ignorare per dare giudizi su quanto fa la cina oggi. e certamente falsificano inequivocabilmente paragoni azzardati con la nep. che durò pochissimi anni, in condizioni del tutto diverse. per me il nocciolo duro della critica del capitale di marx è oggi più valida di ieri. come penso che il pensiero di lenin sia rivoluzionario proprio perché seppe analizzare il capitalismo per come si era evoluto ai suoi tempi e per aver elaborato teorie in accordo con quella analisi, anche criticando i marxisti scolastici che non potevano capire in nessun modo come si potesse fare la rivoluzione in un paese dove il capitalismo era circoscritto a pochissimi distretti e in cui la classe operaia era una infima minoranza. penso che la riduzione del pensiero di lenin operata da stalin ad un bigino (fino a teorizzare esattamente il contrario di quel che sosteneva lenin circa l’estinzione dello stato) sia uno dei più grandi tradimenti del pensiero comunista e rivoluzionario. mummificare un pensiero rivoluzionario (oltre che la povera salma) e ripeterne ossessivamente delle citazioni fuori dal loro contesto assomiglia di più ad una volgare ed oscurantista discussione teologica che ad una discussione seria. e non può che finire che con scomuniche e con le accuse che chi la pensa in modo anche leggermente diverso è un agente del nemico. ma non divaghiamo…. (e sappi che questo stralo non è per te annared, bensì per i molti che nel corso degli anni si sono accomodati in rassicuranti certezze che non ammettono alcuna critica, perché il castello idealistico sul quale poggiano è talmente debole che anche la minima critica lo fa crollare come un castello di carte).
    la nep era circoscritta quasi esclusivamente al settore agricolo, non ammetteva certamente investimenti di multinazionali, non dominava le politiche monetarie e le relazioni commerciali fondate sulla esportazione di merci ad alto valore aggiunto e prodotte dal capitale straniero in zone “speciali” dove le imprese non pagano tasse, era considerata un “passo indietro” contingente e non uno strumento strategico per sviluppare le forze produttive, non dava luogo a nessun “diritto” politico dei piccoli proprietari terrieri, figuriamoci di grandi multinazionali straniere e di grandissimi capitalisti cinesi (ora ammessi a pieno titolo nel pcc), era tesa alla soddisfazione di bisogni primari dopo la guerra civile.
    insomma non si può paragonare. esistono analogie? si. eccome se esistono. la prima è il riconoscimento che il socialismo non si crea per decreto dall’alto. che è necessario un processo di lungo periodo e che ad un contadino analfabeta non si può dire che deve produrre per la collettività senza tenere nulla per il proprio consumo e senza poter valorizzare il proprio lavoro attribuendo un valore di scambio alla merce che produce in un mercato controllato. quando è stato fatto in russia o in cambogia è stato disastroso. ma dal “passo indietro” alla teorizzazione che solo il capitalismo finanziarizzato contemporaneo è capace di produrre sviluppo ce ne corre. esiste la analogia per cui c’è una economia mista all’interno della quale il settore privato è permesso, ma una cosa è permetterlo regolandolo strettissimamente per impedire che assuma il comando dell’economia (e poi parleremo del modello sociale) ed un’altra è incentivarlo ed estenderlo fino al punto di dover ristrutturare le imprese pubbliche secondo i criteri dei privati affinché non soccombano in una competizione su un mercato liberalizzato. e mi sembra di aver detto a sufficienza sull’improprio paragone fatto dal pcc per giustificare le “riforme” economiche degli ultimi trenta anni.
    4) entrare nel WTO non è entrare in un club dove si discute di filosofia. per entrare nel WTO bisogna liberalizzare firmando accordi irreversibili. e tutti gli accordi del wto sono totalmente ed assolutamente liberisti e fatti nei puri interessi delle multinazionali. se si firmano quagli accordi e si accende un contenzioso commerciale non è più lo stato cinese, il governo o anche un tribunale che applica la legge cinese a decidere, bensì una commissione arbitrale nominata dal direttore del WTO e la cui sentenza è inappellabile. infatti la cina ha già subito condanne alle quali ha dovuto adeguarsi contro la volontà del pcc nel settore della “cultura”. è un po difficile garantire l’egemonia del partito comunista (anche se avere un ministro che decideva quale musica i cittadini potevano ascoltare come succedeva in urss e nei paesi del comecon non è egemonia bensì una cagata di proporzioni gigantesche che dimostra come fosse borghese e non alternativa la concezione del potere) se non ci si può difendere dalla mercificazione dei “prodotti culturali” e dall’idea che la cultura è un terreno di consumo duro e puro. aderire al wto significa uccidere l’onu, giacché mentre l’onu attraverso le sue agenzie proibisce il lavoro minorile, le devastazioni ambientali, i diritti dei lavoratori ecc ma non applica sanzioni e la cui agenzia dedicata al “commercio e allo sviluppo” (UNCTAD) si sforza di produrre regole per impedire gli enormi disequilibri prodotti spontaneamente dal mercato, il WTO e tutti i paesi firmatari degli accordi per stare nel WTO ha deciso che le merci possono circolare liberamente anche se sono sicuramente prodotte con il lavoro minorile, devastando l’ambiente, privando i lavoratori di qualsiasi diritto, e che bisogna eliminare le regole che riequilibrano il mercato. non è un caso che gli usa, che già applicavano alla cina la clausola di “nazione favorita” nelle relazioni commerciali, hanno insistito e alla fine ottenuto che la cina firmasse gli accordi per entrare nel wto. domanda: se il paese imperialista guida chiede ed insiste perché il suo avversario strategico entri nel wto e diventi una potenza concorrente perché lo fa? per autolesionismo? se la cina pensa che con questa “nep” alla fine produrrà il socialismo e distruggerà il capitalismo perché gli usa (e le multinazionali, e i liberisti di tutto il modo) favoriscono questo processo? perché?
    5) l’introduzione del “mercato socialista” non ha messo in discussione la proprietà pubblica di gran parte delle imprese, soprattutto nei settori strategici. ma ne ha determinato una ristrutturazione potente sia nel diritto societario (in moltissime c’è una quota di proprietà privata spesso straniera) sia nell’organizzazione del lavoro. se una azienda pubblica funziona in economia è una cosa. se deve realizzare profitto e competere con i privati ai quali è garantito di organizzare la produzione come gli pare può avere una proprietà integralmente pubblica ma funziona come una azienda privata. e se c’è la borsa, e la politica monetaria e fiscale per “attrarre” gli investimenti privati e si sviluppa un enorme settore privato va da se che la “competitività” diventa la legge assoluta che guida l’economia. la finanza si separa dagli investimenti produttivi che per essere riprodotti necessitano di sempre maggiori concessioni ai capitalisti e di compressioni dei diritti dei lavoratori. la società cambia, la gente pensa secondo come vive e se la regola è arricchirsi il più possibile e se il modello indicato socialmente e culturalmente è l’individuo che si è arricchito, in una società nella quale le differenze fra ricchi e poveri si acuiscono a vista d’occhio, è piuttosto difficile risolvere il problema aggiungendo la parola “socialista” ad ogni cosa. creando curiosi ossimori. è assolutamente vero che la povertà assoluta è diminuita. e ne danno conto le analisi dello “sviluppo umano” che tu hai citato. ma la povertà relativa e le differenze di classe sono immensamente aumentate. dovresti anche aver citato gli studi dell’onu del 2009 circa le differenze abissali che esistono fra le popolazioni immigrate nei grandi centri che sono prive di qualsiasi diritto (qualsiasi) e che sono un vero (ed enorme) esercito di riserva disponibile per lo sfruttamento capitalistico più selvaggio, e i residenti che hanno diritti ma che li vedono minacciati da una concorrenza spietata nel mercato liberalizzato del lavoro. non è lo stesso vivere poveramente nella cina degli anni 70 o aver triplicato il reddito mentre vivi a shanghai dove l’opulenza dei ricchi è assolutamente egemone, dove il lusso più sfrenato lo hai di fronte tutti i giorni, e dove hai una probabilità su un milione di arricchirti e il 20 o il 30 % cento di essere licenziato perdendo tutto da un momento all’altro. non è lo stesso. e naturalmente il calcolo del pil, e gli stessi dati sulla povertà non danno conto di quel che succede nel cervello di centinaia di milioni di persone che vivono in una società nella quale essere ricchi e sfruttare il prossimo è premiato ed indicato come modello da seguire.
    6) detto tutto questo, cara annared, io non penso affatto che queste indiscutibili contraddizioni siano sufficienti a dire che semplicemente il pcc pur non cambiando nome è diventato l’opposto di quel che era (come altri fanno anche citando mao che così aveva previsto sarebbe successo). mi è chiaro che nel pcc c’è una discussione, che questa discussione non è trasparente ma c’è, che non è riducibile a un settore “moderno” e a un settore “nostalgico”. vedo bene i passi per correggere le storture prodotte negli ultimi trenta anni che si stanno compiendo ora, anche se 15 o 20 anni fa si negava esistessero quelle storture e su questa base si rispondeva a chi le denunciava. in altre parole penso che la partita sia aperta. ma anche a esiti negativi. e non nego che il fatto di averla tenuta aperta così sia meglio che aver atteso un crollo tanto improvviso quanto distruttivo.
    ma negare che la partita sia aperta, negare le contraddizioni esistenti, e prevedere uno sviluppo lineare e ineluttabile del socialismo cinese non è da marxisti.
    se c’è una cosa su cui aveva sicuramente ragione mao, che confutava kruscev che diceva il contrario, è che la lotta di classe continua anche dopo che il partito comunista ha conquistato il potere.
    e la lotta di classe è lotta di classe. non è un pranzo di gala (come la rivoluzione) e si può vincere o perdere.
    per non perderla bisogna guardare in faccia la realtà e non ignorare le contraddizioni.
    un abbraccio

  49. dopo la lunga risposta ad annared non ho il tempo per le altre.
    ma ci saranno. come sempre.
    ciao

  50. Caro Ramon, grazie per la lunga risposta. Apprezzo che si tratti la questione cinese in modo problematico, e senza partire da pregiudizi e luoghi comuni messi in giro dai media occidentali (e molto diffusi nella sinistra italiana).

    Commento rapidamente alcuni punti.

    E’ ovvio che il tempo è passato, e che la NEP cinese non può essere uguale alla NEP leniniana. L’importante è che se ne capisca la similarità di fondo: utilizzare le forze prograssive del capitalismo per modernizzare l’apparato produttivo di un paese arretrato, e imparare a rendere più efficiente e moderna la produzione. Lenin sottolineò infinite volte la necessità di “studiare da esperti e capitalisti stranieri” in tutti i suoi scritti e interventi sulla NEP, perché si rendeva marxianamente conto che il capitalismo era il sistema produttivo più avanzato sul pianeta, e non lo si sarebbe certo potuto superare per decreto e senza conoscerlo a fondo. La NEP cinese ha una estensione e durata indubbiamente maggiore (d’altronde si realizza in un periodo storico diverso, in cui non sono previste rivoluzioni nè nuove guerre mondiali, a differenza dell’URSS della fine degli anni ’20). Ma se tra le tante differenze (sempre facili da cogliere ad un esame superficiale) sfugge la comunanza significato di fondo che ho citato, allora non è impossibile capire la linea e il dibattito interno del PC e del governo cinesi.

    Alcune imprese pubbliche in Cina sono state (temporaneamente) privatizzate (o chiuse) semplicemente perché causavano gigantesche perdite e non erano economicamente sostenibili. Questo, per un paese povero e fortemente arretrato come la Cina fino al ’78, non è certo un problema trascurabile. Con le riforme di Deng Xiaopingo, e l’aumento della ricchezza generale, in molti casi si è poi “tornati indietro” (perché l’esperienza acquisita da aziende straniere ha permesso allo Stato di ricostruire il proprio ambito produttivo in modo più moderno ed efficiente, e senza togliere risorse ad altri settori strategici).

    Il fatto che vari capitalisti cinesi siano iscritti al PC mi sembra un chiaro segno dell’egemonia di quest’ultimo. Gramsci insegna che le organizzazioni politiche della classe dominante hanno la forza di cooptare i quadri dirigenti delle classi subalterne, lasciando queste ultime prive di direzione e capacità di incidere. In Italia, i dirigenti socialisti sono stati storicamente oggetto di cooptazione (trasformismo) dalle forze politiche della borghesia. In Cina, invece, alcuni importanti capitalisti patriottici vengono cooptati da un partito che ha 80 milioni di iscritti, quasi tutti operai e contadini. Cambiano le condizioni, cambiano i rapporti di forza tra le classi.

    Le migrazioni interne in Cina sono fortemente regolamentate, proprio per evitare spostamenti di massa dalle zone più povere a quelle più ricche, ed i conseguenti fenomeni di creazione di manodopera di riserva che citi. E le migrazioni sono regolamentate in base all’effettiva capacità di assorbimento della manodopera da parte delle imprese. Insomma, esistono quartieri popolari poveri in cui giocoforza si concentrano gli ultimi arrivati (finché non possono permettersi una casa migliore), ma in generale non esistono slum o bidonville alle periferie delle città, in cui si concentrano strutturalmente i disoccupati disposti a lavorare per due soldi (come invece avviene in italia con la popolazione migrante).

    Concludo segnalando che il dibattito nel PC cinese e nel governo, le contraddizioni dello sviluppo cinese e le contromisure prese per risolverle, sono abbastanza facili da seguire tramite le numerose testate cinesi in lingua inglese, oggi disponibili su Internet. Segnalo, come punto di partenza, China Daily: http://chinadaily.com.cn/

  51. Dimenticavo una cosa sul WTO. Io credo che la Cina ci sia entrata perché ha ritenuto vantaggioso farlo, per il suo commercio estero e per i rapporti con le aziende straniere che investono in Cina. Credo anche che, se questo vantaggio sparisse, potrebbe decidere di uscirne.

    Ovviamente gli USA hanno invitato la Cina ad aderire, sperando così di trasformare le riforme di Deng in una vera transizione al capitalismo. Infatti, fino a qualche anno fa, tutti erano convinti che la Cina sarebbe diventata un paese capitalista in tempi brevi. Ma le cose non sono andate così.

  52. Hai perfettamente ragione su una cosa Ramon: in cina c’è una partita aperta,tanto più se il socialismo non è il parto naturale del capitalismo,con buona pace di tutti gli economicisti e deterministi. Ma di una cosa credo si possa essere certi:anche se i comunisti cinesi dovessero essere sconfitti ciò che nascerà in cina non sarà il capitalismo che domina la scena mondiale attualmente cioè quella dei funzionari del capitale,tipico degli USA.Credo che questa crisi ne segni l’inesorabile declino,non velocissimo, ma neppure con tempi storici lunghi.Con buona pace di FMI,Banca mondile,WTO, attraverso cui gli USA esercitano il loro controllo mondiale.Anche se,come dicevo,i comunisti cinesi dovessero fallire,sarò sempre grato a loro di avermi tolto dai piedi gli anglosassoni e credo saranno loro grati anche miliardi di cinesi a cui hanno restituito una dignità nazionale e una aspettativa di vita molto più rosea.Comunque vada w.la cina.

  53. Chissà quanti lavoratori comunisti italiani vorrebbero lavorare in Cina? provate a chiederlo, ma già per le magnifiche sorti e progressive del comunismo questo e altro…Già ma queste son solo battute ma forse rendono assai più di chi vuole ammantare il capitalismo di stato in NEP moderna!
    ciao compagne

  54. La domanda corretta,Richi,è:quanti cinesi vorrebbero tornare indietro?

  55. Mi sembra veramente difficile dare torto a Ramon sulla sua analisi riguardo la Cina

  56. egregio afro, non bisogna mica avere idee per il paese, fare proposte (anche se controcorrente) sulla guerra, sui diritti dei lavoratori, sulla contrattazione nazionale, sugli immigrati, sulla scuola, sul problema abitativo, sui beni pubblici, su… . macché! bisogna prendere per il culo gli elettori e dire loro che l’unico obiettivo è eleggere alcuni dirigenti della federazione nelle liste del pd. la sinistra mica deve fare politica. la politica la fanno altri e la sinistra deve mendicare qualche posticino affinché poi dallo scranno qualcuno possa declamare qualche testimonianza di principi astratti e vacui. e poi per non apparire come settari bisogna obbedire ai capricci del leaderino di turno e alla “repubblica”, cospargersi il capo di cenere e chiedere scusa per esistere.
    comunque è interessante notare come strida questa mentalità con quanto ho tentato di scrivere nell’articolo. basta ignorare gli argomenti che uno si sforza di portare nella discussione e così, come per magia, si può dire qualsiasi cosa. ma proprio qualsiasi. esattamente come fanno i giornalisti e i politicanti nei talk show.
    la sinistra è in crisi soprattutto per questo. perché molti di quelli che pensano di essere di sinistra sono solo, se va bene, tifosi di un leader e perché pensano che la politica finisca dove finisce l’osceno gioco imposto dal maggioritario.

  57. caro antonio, io ho rispetto per gli astensionisti di principio. tendo a non averne molto per chi pensa che basti partire da assunti indimostrati, e cioè da dogmi, per costruire enormi castelli di carta. il potere esiste. ma non è un moloch onnipotente. perfino nel regime più autoritario bisogna sempre cercare anche il minimo spazio ed utilizzarlo. altrimenti si costruisce una setta che si illude di “accumulare forze” senza provare a cambiare nulla di nulla nella realtà. cioè di raccogliere proseliti per la setta.
    il potere e il parlamento erano avversi anche in altre epoche in italia. ma il proletariato ha potuto e saputo, con la lotta ed usando la repubblica parlamentare, conquistare potere nella società e cambiare le condizioni di vita di decine di milioni di persone. se il pci e la sinistra avessero ragionato come te non solo non avrebbero accumulato forze ma non avrebbero conquistato un bel niente e sarebbero stati percepiti come totalmente inutili. esattamente come le decine di sette che si autoproclamano la vera avanguardia del proletariato.
    ciao

  58. caro massimiliano, grazie per il commento. anche troppo lusinghiero per me.
    sul punto che segnali io sono d’accordo con te. l’esempio è calzante. infatti io penso che la battaglia si debba fare fortemente anche a livello ideologico. ma la battaglia ideologica molti la concepiscono come “denuncia” della natura borghese del pd condita da strali ed insulti. con l’illusione che questo basti ad aprire gli occhi della gente. mentre questa non è battaglia ideologica bensì predica settaria. e non apre gli occhi di nessuno. per il semplice motivo che l’egemonia del capitale e del pensiero unico c’è. e proprio quando si incrina, o può incrinarsi, come dentro l’attuale crisi la lotta ideologica vera deve essere interna alle lotte e rivendicazioni e trovare un collegamento con la proposta politica. non saltare tutto questo e illudersi di risolverla a suon di slogan contro questo e quello. ovviamente è molto difficle stare in una lotta come quella sull’acqua pubblica, anche organizzando discussioni e dicendo esplicitamente quale è il rapporto dell’acqua con l’attuale accumulazione capitalistica, come mai il capitalismo per autoriprodursi ha una necessità intrinseca di immettere nel processo produttivo, speculativo e di proprietà anche ciò che fino a ieri era fuori da questo processo. come l’acqua o, per esempio, il genoma di piante ed animali. ai militanti del pd e agli elettori del pd che hanno firmato per l’acqua pubblica non serve dire che il loro partito è borghese. serve far capire la portata strategica ed anticapitalista della battaglia. così apparirà più chiaro quale sia il vero contenuto e la vera natura del loro partito.
    ma per fare questo ci vuole coscienza, conoscenza, capacità di analisi ed anche intelligenza tattica.
    per ridurre la lotta ideologica a quattro slogan (incomprensibili per il 99 % della popolazione) non ci vuole nulla.
    perciò ho scritto quello che ho scritto nell’articolo.
    ma credo proprio che siamo d’accordo.
    un abbraccio

  59. caro luca marini, mi sono chiare le tue contrarietà alla proposta politica che adesso sulla base di “sensazioni” giudichi “priva di respiro”. curiosamente secondo te sarebbe priva di respiro perché rifiutata da vendola e perché sinistra critica e pcl insistono nel dire che bisogna fare un polo elettorale alternativo. guarda che non c’è nulla di male ad essere d’accordo con ferrando. lui è immarcescibilmente d’accordo con se stesso. con sinistra critica meno, perché dovrebbe spiegare, sinistra critica, come mai per il 2006 proponeva la desistenza ed oggi no. perché è chiaro che la nostra proposta è la desistenza declinata con l’attuale legge elettorale. ma lasciamo perdere.
    io penso che la proposta sia giusta, oltre che dotata di respiro, come dimostra il fatto che si è imposta nel dibattito politico a tutti. e come dimostra il fatto, anche a dispetto delle mille obiezioni fatte nell’ultimo anno anche su questo blog, che dicevano che era impossibile realizzarla, che invece è realizzabile.
    solo questa nostra proposta ha provocato uno scontro nel pd. uno scontro vero. e, una volta tanto, invece che essere noi a dividerci sulla base delle scelte del pd, è il pd a dividersi sul fare o meno il famoso accordo a due velocità.
    ciò che dici è sbagliato in tutti i sensi.
    la controprova è li davanti ai tuoi occhi se la vuoi vedere.
    se facciamo come dici tu semplicemente ci divideremo di nuovo, la proposta di sel avrà vita ancora più facile perché sarà l’unica ad apparire come concreta contro berlusconi ed unitaria e l’offensiva unitaria che tanto ti spaventa la subiremo noi più di quanto non la subiamo oggi.
    per la trecentesima volta ti ripeto, come ho tentato di fare nell’articolo, che i sistemi elettorali hanno una loro logica. se si vota principalmente per decidere il governo bisogna rispondere a questa domanda: siamo indifferenti se berlusconi rivince le elezioni? perché questo è il motivo per cui votano quasi tutti. pro o contro. far finta che questo non esista significa partecipare alla propria distruzione. poi c’è un’altra domanda: siccome vogliamo cacciare berlusconi siamo obbligati a partecipare ad un governo che non farà certo nulla di sinistra? la risposta è no. non siamo obbligati. ci sono problemi e contraddizioni in tutto questo? si, ci sono. ma ci sono più grandi sia se non partecipiamo alla cacciata di berlusconi sia se entriamo nell’ulivo e facciamo finta che così si conta di più. inoltre c’è la possibilità di cambiare la legge elettorale ripristinando una rappresentanza che può vivere senza il ricatto del maggioritario. ma secondo te dovremmo farci sfuggire questa opportunità.
    mah!
    un abbraccio

  60. cara annared, pure io ringrazio proprio per il fatto che non mi attribuisci intenzioni che non ho e non ho mai avuto. quello che tu hai apprezzato è sempre stato il mio approccio. anche se nel corso degli anni ho dovuto subire insulti ed infamie secondo le quali sarei anticomunista, avrei ritto i rapporti col pcc quando ero responsabile esteri, e chi più nel ha più ne metta. nel tempo che fui responsabile esteri io incrementai i rapporti col pcc anche allo scopo di discutere e conoscere le loro posizioni meglio. senza nascondere critiche che mai i dirigenti del pcc con i quali parlai presero come offensive. consapevoli come erano, e lo dicevano, delle mille contraddizioni connesse alle scelte che pure difendevano.
    ma veniamo al merito. anche se velocemente perché le divergenze che abbiamo credo siano chiare e non serve ripeterle all’infinito.
    sulla nep non dovrei aggiungere nulla. io ho detto che vedo bene le analogie. ma tu non vedi analogie. tu vedi similitudini assolute. ho argomentato per dire che non si può paragonare la nep sovietica con la nep cinese. permettere un settore privato ultralimitato e quasi esclusivamente circoscritto all’agricoltura e alla piccola industria produttrice di macchine ed utensili per l’agricoltura, oltre che al piccolissimo commercio ed artigianato su base strettissimamente locale, senza cooptare i privati in nessuna struttura politica, non è lo stesso che incentivare la creazione di grandissime imprese private in quasi tutti i settori, a cominciare da quello finanziario, ristrutturare le imprese pubbliche affinché possano competere sul libero mercato (che per quanto socialista si chiami è libero nel senso liberista del termine), incentivare gli investimenti di tutte le più grandi multinazionali del pianeta ed indicare l’arricchimento di alcuni a scapito di altri (o lo sfruttamento e la contraddizione capitale lavoro sono spariti?) come un modello da seguire e non come una dura necessità temporanea.
    il capitalismo non è solo la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’irriducibile contraddizione capitale lavoro. è anche un meccanismo economico concreto che trasforma la società modellandola secondo le proprie esigenze. tu ignori totalmente che il modello de “arricchirsi è glorioso” produce in trenta anni una società fortissimamente individualizzata, produce un ricchezza concentrata in pochissime mani (il 10 % della popolazione detiene una ricchezza pari a quella di tutta la restante popolazione), produce una povertà relativa che nella percezione delle persone in carne ed ossa che la possono paragonare con la ricchezza più sfrenata ogni giorno camminando per la strada è ben più pesante da sopportare. e così via.
    tu dici che le imprese statali sono state privatizzate “temporaneamente”. non è vero. può valere per il primo decennio di riforme economiche. ma poi sono state cambiate le leggi e oggi la proprietà privata è totalmente protetta dal diritto civile ed anche penale. insomma, è temporanea come lo è in italia. perché la temporaneità finisca ci vuole un sovvertimento dell’ordine costituito. è cioè riconosciuta come in tutti gli altri stati che nessuno dubita siano capitalistici. dici che sono state chiuse perché inefficienti. beh. è la stessa accusa sulla base della quale tutto è stato privatizzato in europa negli ultimi trenta anni. e quelle che non sono state chiuse sono state ristrutturate secondo i criteri della competitività. perché se produci per il mercato, e non per il piano, devi competere nel mercato. e per competere non c’è dubbio che devi ridurre il personale, aumentare la produttività con meno personale impiegato, e sottoporre i lavoratori alla legge del profitto che prevede che essi debbano introiettare le compatibilità imposte dalla ricerca del massimo profitto. del resto moltissime aziende pubbliche hanno parte della proprietà in mano ai privati anche stranieri e funzionano sulla base degli andamenti borsistici. ma vorrei farti notare che è lo stesso processo che hanno subito e subiscono le imprese pubbliche in europa. perché avremmo dovuto opporci alla trasformazione delle aziende pubbliche in spa in italia? quando lo abbiamo fatto che ci hanno detto? che eravamo vecchi ed ideologici, che non capivamo che anche con la proprietà pubblica una impresa deve funzionare come una impresa privata, altrimenti non è competitiva e risulta inefficiente. o non te ne sei accorta?
    del resto dopo i primi esperimenti negli anni 80 e fina all’inizio degli anni 90 in cina c’è stato un dibattito esplicito. il tema era: ma ciò che si sta facendo è capitalismo o socialismo? chi abbia prevalso nel dibattito è noto. ma non è estraneo all’esito del dibattito il peso degli interessi capitalistici enormi che si sono consolidati anche dentro il partito.
    a parte l’enorme corruzione (che il pcc stesso denuncia sempre più ma che è difficilmente eliminabile con strumenti puramenti penali perché anche un marxista scolastico sa che è un fenomeno intrinseco al capitalismo e alla proprietà privata) non basta aggiungere l’aggettivo “patriottico” per trasformare il capitalista in qualcosa di diverso da uno sfruttatore del lavoro e un pirata nel mercato. altrimenti avevano ragione i socialdemocratici a dire che i capitalisti ben regolamentati avrebbero contribuito alla nascita del socialismo.
    la accettazione dei capitalisti in un partito comunista al potere e in un sistema a partito unico non è la stessa cosa di un piccolo imprenditore che si iscrive ad un partito comunista all’opposizione in un paese con pluripartitismo.
    è la trasformazione del partito nel luogo dove si può dare la rappresentanza degli interessi dei capitalisti. anche perché stiamo parlando di capitalisti grandi, proprietari di molti stabilimenti e di finanziarie e di enormi patrimoni edilizi. altrochè patriottici. per il capitalismo la patria è buona solo se serva ai suoi interessi. se li contraddice è pronto ad allearsi con chiunque pur di difenderli.
    infine, cara annared, nel mercato non si da che si “regolamentino i flussi migratori”. altrimenti ha ragione la lega. “vengano solo quelli che servono per lavorare”. rileggiti il rapporto sullo sviluppo umano dell’onu del 2009 dedicato alla migrazione e vedrai che in cina la “regolamentazione” non ha impedito nessuna migrazione ma ha semplicemente creato gli irregolari che lavorano in nero e che accettano condizioni salariali, di sicurezza sul lavoro e di abitazione identici a quelle degli immigrati irregolari in italia. identici perché sono un esercito di riserva, non nelle condizioni di lavoro e salariali che sono ben peggiori. e sono diverse decine di millioni.
    come vedi non basta citare quel che dice il governo cinese di se stesso per auto rassicurarsi.
    io continuo a pensare che la partita sia aperta.
    la controprova l’avremo il giorno che, e spero succeda presto, si tornerà a chiedersi in cina: ma questo è capitalismo o socialismo?
    ciao

  61. scusa annared, dimenticavo il wto.
    evidentemente non sai bene cosa sia il wto. non è un luogo, come l’onu, dove si discute e si prendono decisioni a maggioranza, o dove si entra e si esca a proprio piacimento. il wto è una organizzazione che vigila ed implementa gli “accordi commerciali globali” stipulati e firmati dagli stati nei negoziati. per entrare nel wto si firmano e sottoscrivono gli accordi che gli altri hanno già firmato. per esempio la russia non è entrata perché altrimenti le privatizzazioni che ha fatto le avrebbe dovute fare con le regole previste dagli accordi. e cioè non avrebbe potuto garantire la proprietà russa, anche se privata e spesso mafiosa, di gran parte delle imprese privatizzate. gli accordi firmati non sono strette di mano qualsiasi. prevedono in caso di violazione degli stessi pesantissime sanzioni. si può uscire dal wto ma il wto può applicare sanzioni semplicemente mettendo dazi pesantissimi sulle merci provenienti da quel paese in tutti gli altri paesi del mondo. mettendolo in ginocchio
    quindi ciò che dici è sbagliato. e poi bisogna vedere se sono stati prevalenti gli interessi del paese o gli interessi delle imprese, soprattutto delle multinazionali che hanno localizzato importanti produzioni in cina delocalizzando in europa, ad aver guidato l’ingresso della cina nel wto.
    quando mi si dice che gli interessi del capitale sono anche gli interessi del paese sono diffidente, cara annared. perché un socialismo che si affida al capitalismo per svilupparsi non esiste. mentre i capitalisti non hanno problema alcuno a cantare l’oriente è rosso se li si favorisce.
    ciao

  62. luca marini Says:

    Io non sono indifferente sul fatto di cacciare Berlusconi, questa responsabilità d’altronde è da 15 anni che ogni iscritto di rifondazione se la sente addosso. Tutte le nostre scelte elettorali nazionali e strumentalmente anche a livello locale infatti si sono caratterizzate infatti in ultima analisi sul ricatto che ci è stato fatto di essere insensibili a far tornare Berlusconi al potere e spesso abbiamo fatto accordi principalmente per contrastare la possibilità del ritorno di Berlusconi al potere.
    Però penso anche che messa così la domanda eluda qualche problemino e cioè che i nostri accordi di governo o no con i ds,pds e pd cioè i vari centrosinistri hanno sempre fallito e rafforzato sempre di più, berlusconi al di là del sistema elettorale, o no? Far finta che questo problema non ci sia mi sembra al quanto bizzarro e questo mi sembra che si tenda a rimuoverlo.
    C’è un altro elemento che non si può eludere tutte le volte che abbiamo partecipato ad una alleanza con i ds, pds, pd etc ne siamo usciti noi dilaniati abbiamo subito scissioni e dimezzato i consensi o no?
    E’ successo nel 98 primo governo Prodi e desistenza ed è successo nel 2008 con il secondo governo Prodi dove eravamo al governo con un’altra legge elettorale. Come vedi il problema della nostra distruzione non si elude anche se si fa una desistenza.
    Anche perchè potrebbe succedere che se il centrosinistra vince e poi i nostri numeri sono determinati per il governo, il problema atavico di non far tornare berlusconi si ripresenta nuovamente.
    Quindi non dividerei compagni che concordano con la proposta in responsabili e quelli che invece sostengono che vada già da ora costruito un polo alternativo al centrosinistra degli irresponsabili che vorrebbero distruggere tutto.
    Poi non credo che la divisione nel PD dipenda da noi o perlomeno penso che all’interno del PD ci sono contrasti che vanno al di là degli schemi delle alleanze e cioè a legami più o meno saldi con diversi settori dei poteri forti. E poi anche se fosse che solo il nostro ritorno in parlamento può creare frizioni e spaccature, poi sia Bersani che Veltroni non batterebbero ciglio per fare politche di destra o quantomeno asservite ai “poteri forti”, queste divisioni si ricompatterebbero all’istante per cotrastare una qualsiasi nostra proposta sul ritiro delle truppe dall’afghanistan, su una eventuale finanziaria lacrime e sangue etc etc.
    Infine se la cosa è in questi termini e cioè che c’è chi non si pone il problema di cacciare Berlusconi, beh ne devo deddurre che abbiamo sbagliato a rompere con Prodi nel 1998.
    Sul giudizio spietato su Ferrando e Sinistra Critica se il giudizio è così netto registro che c’è anche da parte nostra l’intenzione di confrontarsi veramente, perchè troppo settari.

  63. Meno male che leggendo il sito di Jacopo Venier si capisce meglio quali divisioni attraversi la FdS, quanto ancora saremo tutti assieme? ma smettiamo di dire quanto è bravo Bersani concordo appieno con Venier!! come da anni NE CARNE NE PESCE SIAMO….

  64. Grassi srive che i delegati al congresso FdS verranno eletti con “quote riservate”! bello democratico assai, e poi vorremmo nuovi iscritti, nuove adesioni?
    saluti

  65. Ramon, la tua disamina sulla Cina è ineccepibile, lucida e soprattutto SPIETATA. Quello che descrivi è un mondo dominato dai più selvaggi tra i meccanismi capitalistici.
    Dopo di che, si capisce e siamo d’accordo, “la partita non è chiusa”, certo che no. La partita non è MAI chiusa, data la realtà ineliminabile della lotta di classe. E NON E’ VERO che la lotte di classe “ormai la fanno solo i padroni” come vuole una formula sostanzialmente vignettara: la facciamo tutti noi, ogni giorno, anche nel nostro piccolo, ogni volta che rivendichiamo un diritto vecchio o nuovo, che ci ritagliamo spazi di manovra, che non facciamo la spia ai compagni di lavoro e non facciamo i crumiri, ogni volta che ci comportiamo in maniera solidale. Non vorrei però che il dire “la partita non è chiusa” venisse letto come un’apertura di credito al PCCinese. Il segno di classe di chi ha gestito e promosso quello che descrivi tu è sin troppo chiaro. POI, si capisce, dentro il PCC c’è un po’ di tutto, istanze anche popolari, ma questo avviene in tutti i regimi, democratici o meno che siano, dato che il potere è sempre una forma di compromesso.
    Probabilmente un concetto che ci disorienta anziché aiutarci a capire, quando parliamo del “socialismo realmente esistente”, è proprio il concetto di “società di transizione”, che per me è sostanzialmente un ossimoro. Perché se vogliamo definire il “carattere” (e non “la natura”, che poi si sfocia nell’ineluttabilismo, come osservi tu) di una formazione sociale dobbiamo vederla “a riposo”, negli anni della stabilità e del (sempre relativo) “consenso” di cui un determinato assetto gode. I famosi “periodi di transizione” (su cui tante battute si sono fatte e non a torto) sono invece fasi magmatiche, di passaggio, NON di stabilità.
    Invece le varie parrocchie marxiste hanno sempre parlato di “società di transizione” (interrotta, al rallentatore, a seconda): il post-stalinismo revisionista parlava di lunghissima transizione, il trotzkismo di transizione interrotta (dai burocrati cattivoni), certo bordighismo di transizione…al capitalismo.
    Tutte queste formule spostano indebitamente il discorso verso una “direzione ineluttabile” della società in oggetto, verso un vero e proprio suo “destino”.
    Invece non esistono “le società di transizione” (se non per pochi, magmatici anni di lotta civile): esistono la lotta di classe e la lotta politico-culturale che ne è diretta o indiretta espressione, e che a un certo punto si cristallizza in una formazione di COMPROMESSO tra le classi in lotta, perché bisogna pur vivere e mangiare e non si può sempre confliggere apertamente e traumaticamente.
    Per questo motivo la partita NON è MAI chiusa (infatti l’equilibrio può saltare) indipendentemente dalle dichiarazioni dei vari dirigenti.

  66. caro luca marini, a me non interessa se tu sei indifferente o meno a berlusconi. io lo sono abbastanza. a me interessa che ci sia una proposta giusta per il paese. bisogna tentare di mandare via berlusconi e cambiare il sistema elettorale. punto. il resto è secondario. via berlusconi perché nella crisi è chiaro che le minacce di cambiamento della costituzione sono all’ordine del giorno. cambiare il sistema elettorale per farla finita esattamente con molte delle cose che tu stesso descrivi. non si fanno mai scelte pensando all’orticello. tanto meno sulla base della paura che l’orticello non regga all’impatto di ciò che si fa.
    quando pensi a una posizione non devi pensare a qualche militante (che del resto sai bene essere totalmente divisi nel caso si debba scegliere fra l’alleanza organica o l’isolamento) bensì al paese.
    non puoi presentarti alle elezioni dicendo che siccome il pd fa schifo allora per te può anche vincere berlusconi. come non puoi argomentare dicendo che se facciamo un accordo richiamo che ci siano opportunisti o scissioni. come non puoi ignorare la domanda che chiunque ti fa e che è reale. perché con questo sistema elettorale si decide il governo.
    inoltre mai ci siamo dichiarati indifferenti, tanto è vero che nel 2001 facemmo la desistenza unilaterale. è stato nel 2008 che c’è stata la “separazione consensuale” con il bel risultato che oltre a perdere una marea di voti a causa dell’esperienza di governo ne abbiamo persi ancor di più verso il pd per il voto utile. se nel 2001 non avessimo fatto la desistenza unilaterale nei collegi della camera con tutta probabilità non avremmo nemmeno passato il 4 % nella quota proporzionale.
    dialogo con sinistra critica significa anche ricordare che loro, come falce e martello, proposero la desistenza per il 2006. non vedo perché qualcuno debba dire che per questo io sono settario.
    ciao

  67. egregio richi, e va bene. non siamo ne carne ne pesce. io infatti sono un vegetale carnivoro.
    se non ti interessa cosa scrivo e vuoi mettere i tuoi spot molto approfonditi ed argomentati hai altri mille siti per farlo. come vedi non ti cancello. però ti invito a trovarti un bel “grande fratello” di sinistra dove discutere così. ce ne sono tanti.

  68. caro alfonso, mi rallegro che tu sia d’accordo con quanto ho scritto sulla cina. ma proprio per questo io non amo ragionare di “aperture di credito” o di scomuniche. per altro non credo che il pcc si preoccupi delle mie eventuali aperture di credito.
    inoltre il concetto di “società di transizione” è da sempre proprio del marxismo. una società nella quale convivono più modi di produzione e la cui traiettoria va in una certa direzione. anche tu parli di compromessi. sono propri delle società di transizione. nel mio articolo ho descritto la crescita degli elementi che facevano maturare la pèossibilità/necessità del superamento del capitalismo nel periodo fordista keinesiano. anche il socialismo è una società di transizione verso il comunismo. per i comunisti.
    ma non facciamone una questione nominalistica.
    un abbraccio

  69. Richi dice una cosa giusta: la modalità con cui si farà il congresso nazionale della federazione della sinistra è molto molto deludente… dopo aver parlato per molto tempo di meccanismi includenti e partecipativi (una testa un voto) e quant’ altro, ora ci troveremo con una platea congressuale super-blindata e un percorso che si annuncia molto noiso e che potrebbe approfondire le divisioni, sfavorendo l’ emergere della contamizione delle posizioni fra i delegati provenienti da diversi soggetti.
    Almeno, per fortuna, se non ho capito male, non si eleggeranno i gruppi dirigenti locali e si lascerà spazio alla partecipazione e ad un minimo di flessibilità ed apertura per quel che riguarda la strutturazione territoriale della federazione

  70. luca marini Says:

    Ancora più deludenti sono le motivazioni che si sono addotte per giustificare le scelte fatte sulle modalità del congrsso e cioè (come a scritto Grassi) che si poteva fare meglio e di più ma ci sono le elezioni e non ci si poteva permettere di fare congressi territoriali, troppo litigiosi.

  71. Michele Caruso Says:

    Non capisco perché, ogniqualvolta qualcuno osa abbozzare una critica nei tuoi confronti o verso la linea politica prc tu gli rispondi “se non ti sta bene vai in un altro sito”. A me hai risposto addirittura “apriti un blog tutto tuo e divertiti”. Ma ti sono davvero così urticanti i pareri discordi con il tuo pensiero?

  72. Carlo Serafini (Roma) Says:

    “La coscienza dei pirla”
    Lettera aperta della Rete dei Comunisti

    Le valutazioni che abbiamo diffuso in questi giorni sulle prospettive indicate dalla Federazione della Sinistra sullo scenario politico dei prossimi mesi, hanno suscitato reazioni opposte: consenso tra molte compagne e compagni che hanno in qualche modo metabolizzato la divaricazione tra loro e le esperienze delle forze che costituiscono la FdS; acrimonia e reazioni viscerali tra compagni non certo marginali del PRC che può essere ben sintetizzata con la categoria dei “pirla” rivolta dal compagno Ferrero verso i compagni che non condividono o non “comprendono” l’alleanza democratica indicata dalla FdS con il PD in funzione antiberlusconiana. Non solo. Abbiamo risentito in giro inefficaci ragionamenti del passato e una personalizzazione delle accuse che nega qualsiasi dimensione politica del confronto.

    L’incidente di percorso dell’articolo sul Corriere della Sera e la conseguente smentita dei portavoce della Federazione della Sinistra su un possibile passaggio in carico di alcuni candidati della FdS in quota Ulivo, ha diradato un polverone ma non ha affatto sciolto il nocciolo di fondo della questione: la sinistra anticapitalista ha un futuro e una funzione nel nostro paese se non riesce a immaginare il suo spazio politico in modo indipendente dall’alleanza – per forza di cose subalterna – con il Partito Democratico e la possibile coalizione antiberlusconiana?

    Al contrario, i portavoce della FdS hanno confermato che la collocazione di questa esperienza sarà dentro l’alleanza con il PD e con tutte le forze disposte a sostituire il governo Berlusconi con un altro esecutivo. I portavoce della FdS hanno ripetutamente sostenuto che sarà solo un’alleanza elettorale e che non prevede una partecipazione all’eventuale nuovo governo. Per questo motivo i candidati della FdS si limiteranno a presentarsi per la Camera (dove la maggioranza al governo viene assicurata dal premio previsto dal Porcellum) e non al Senato dove potrebbero rivelarsi invece decisivi per sostenere o far cadere la maggioranza del nuovo governo.

    A ben vedere dunque l’articolo del Corriere ha seminato un bel po’ di veleno e di ipotesi smentite dai suoi protagonisti, ma rimane tuttora difficile liquidare la vicenda come scenario del tutto fantasioso.

    La realtà infatti manda segnali piuttosto chiari:

    1) La legge elettorale attuale consente di vincere le elezioni solo se ci sono due grandi coalizioni, una delle quali accede anche per un solo voto in più al premio di maggioranza. Se qualcuno vuole battere il blocco berlusconiano deve quindi coalizzarsi e raccogliere più voti. Lo spostamento a destra dell’asse politico del paese, fa si che questo venga ritenuto possibile solo “sottraendo voti” alla destra populista e trasferendoli al centro-destra moderato (Fini,Casini, Rutelli etc.) coalizzato con il centro-sinistra. E’ pensabile che questa operazione possa prevedere il simbolo della Federazione della Sinistra al fianco non solo del PD ma anche di partiti moderati e di destra? Se i portavoce della FdS si sentono e si dicono sicuri di questa possibilità buon per loro, ma il tasso di credibilità e praticabilità di questa ipotesi appare decisamente improbabile (oltre che – a nostro avviso -politicamente discutibile) anche tenendo conto della “tagliola” che sta preparando l’asse Vendola-Veltroni.

    2) Il dispiegarsi concreto della crisi economica e l’accentuazione della lotta di classe dei gruppi dominanti contro i settori sociali subalterni (lavoratori, precari, disoccupati, immigrati), continua a far saltare ogni tentativo di stabilizzazione del sistema da parte del blocco berlusconiano. La crisi e la rottura nella destra di governo, rivelano che dal punto di vista dei poteri forti Berlusconi è diventato “una tigre di carta” che va sostituita con una leadership più simile a Montezemolo che agli evasori fiscali della Padania, più obbediente al nascente governo europeo che alla pancia profonda dell’Italietta, più sintonizzato con le grandi banche che con i capitali extralegali. Berlusconi in questi anni è stato veramente la “variabile indipendente” che ha scombinato – in nome dei propri interessi personali e di un blocco sociale neo-borghese arretrato- il progetto di normalizzazione capitalistica del paese concepito nel 1992. Da questo punto di vista concentrare sulla caduta di Berlusconi tutto il conflitto sociale e la potenziale soggettività politica anticapitalista, significa dare una chiave di lettura parzialissima e arretrata della realtà e correre il rischio di “lavorare per il Re di Prussia” ripetendo ad libitum il vero errore fatto dalla sinistra negli ultimi 15 anni. Un errore che, ripetuto nel tempo, si è trasformato in deriva rovinosa per la sinistra non solo sul piano della rappresentanza istituzionale ma anche in relazione al tasso di autorevolezza politica nella società.

    La Federazione della Sinistra sembra voler ripercorrere esattamente i passi e la logica che ha portato la sinistra alternativa di questo paese alla attuale crisi. E’ decisamente difficile affermare che i patti di desistenza, i rospi da ingoiare, l’Arcobaleno, il tatticismo elettorale, la cultura del meno peggio, la mediazione come presupposto e non come eventuale punto di arrivo di una battaglia, abbiano in questi anni evitato.. il peggio! Sono lì a certificarlo i sondaggi elettorali diffusi in questi giorni e che vedono i partiti della sinistra scomparire come opzione politica, ma soprattutto rendono evidente la difficoltà ad individuare una prospettiva politica che definisca una funzione reale e non residuale di una sinistra anticapitalista in questo paese.

    L’insistenza con cui da quindici mesi la Rete dei Comunisti pone al centro del confronto – anche con la FdS – l’indipendenza politica e di classe come presupposto per un processo di ricomposizione e rappresentanza politica e sociale di una sinistra anticapitalista, non è una “pirlata” come ingenerosamente l’ha ritenuta il compagno Ferrero, ma è la proposta sulla quale abbiamo costruito sia il confronto con la Federazione della Sinistra sia il dibattito con le ormai numerose soggettività politiche e sociali che da questa si sono tenute alla larga o allontanate nel corso del tempo.

    E’ un punto di vista e una concezione della politica che – come abbiamo affermato in numerose occasioni – comporta una rivoluzione culturale oltre che un atteggiamento attivo dentro il conflitto sociale, altrimenti lo scadenzario elettorale diventa l’unico orizzonte di sopravvivenza a tutto discapito della progettualità, dell’identità e di una visione complessiva del conflitto sociale in relazione alla crisi di sistema del capitalismo.

    Rinnoviamo dunque l’invito al confronto già avanzato anche nei giorni scorsi con tutte le forze che si vanno dando come priorità la ricostruzione di una soggettività politica anticapitalista, inclusa – se realmente disponibile – la Federazione della Sinistra, rispetto a quella che abbiamo definito in questi anni la necessaria ed ora inderogabile costruzione della rappresentanza politica in questo paese dei lavoratori e dei settori sociali subalterni.

    Un impegno ed un obiettivo da consolidare non solo per decidere come affrontare le eventuali elezioni, a partire da quelle già indette in alcune grandi aree metropolitane nel prossimo anno, ma soprattutto per definire come affrontare la realtà immanente e le conseguenze antisociali della crisi.

    20 settembre 2010

    La Rete dei Comunisti

  73. Grazie per la tua magnanimità Ramon che non mi cancelli, che compagno tollerante con chi abozza solo riflessioni senza certo una riflessione approfondita, non credevo che solo coloro che scrivono più di 50 righe sono dei fini intellettuali gli altri solo abbonati al “Grande Fratello”.

    Comunque voglio rispondere a bosco sulla Cina vista che mi invita a riformulare la domanda rivolgendo ai cinesi “se desiderano tornare indietro” con questa intervista che mi pare emblematica:

    “Lavoro in questa fabbrica dal 5 giugno 2006, il mio salario si aggira intorno ai 1.400 yuan (158 euro) al mese, ovvero solo un centinaio di yuan in più rispetto a quanto percepiscono i neoassunti. Secondo voi è giusto? E’ giusto che il mio salario sia aumentato solamente di 28 yuan (3 euro circa) al secondo anno di lavoro, di 29 al terzo e di 40 dopo quattro anni? Ed è giusto che il 40% di coloro che lavorano qui siano stagisti sottopagati, fatto che si riperquote sui nostri salari? O che ci siano 5 livelli, ciascuno dei quali diviso in quindici gradini, il che significa che, dato che non è possibile salire di più di un livello all’anno anche se lavorassi bene, dovrei lavorare sttacinque anni per arrivare in alto? E’ giusto, ancora, lavorare tanto per risparmiare solo qualche centinaio di yuan al mese? Ci sono troppe disuguaglianze, troppe promesse non mantenute, troppe ingiustizie. Cosa saremmo se accettassimo tutto ciò? Non abbiamo scelta: questo sciopero è una questione di dignità”
    Parole di un operaio di una frabbica automobilistica Honda, a Foshan provincia cinese Guandong, durante lo sciopero di maggio 2010.

    Avremmo scritto una volta scene di lotta di classe, invece (scusate la banalizzazione ancora…) sorti progressive sono per BOSCO.

    P.S. Ti informo comunque bosco che sono tornato da poco da un viaggio in Cina, e per mia non responsabilità ( i parenti non si scelgono) ho una cugina che da quasi 20 anni ha aperto una fabbrica manifatturiera in Cina e di cui credimi non mi mancano le notizie…

  74. cari richi e michele caruso, lo ripeto per l’ennesima volta.
    questo non è un sito del prc e nemmeno un giornale online e nemmeno un forum. è solo il mio blog personale dove pubblico articoli miei che sono comparsi sulla carta stampata e articoli scritti appositamente per il blog.
    il fatto che chiunque sia libero di postare ciò che vuole giacché ho scelto di non sottoporre i post ad approvazione per essere pubblicati non da il diritto di postare commenti contenenti insulti a terze persone (li cancello) e nemmeno di mettere slogan e giudizi immotivati. questi ultimi non li cancello ma credo di avere tutto il diritto di dire che non sono graditi e che ci sono mille altri siti dove invece che discutere con ragioni, con rispetto delle reciproche posizioni, con argomenti, si discute a suon di frasi fatte, di slogan e di contrapposizioni.
    purtroppo molti ritengono che discutere fra compagni e di politica si possa fare dicendo frasi del tipo “non siamo ne carne ne pesce” oppure “tizio e caio sono capaci solo di distruggere il partito e di ridurlo ai minimi termini” oppure “che pensa che non si deve fare un accordo col pd è un cretino settario” e così via all’infinito.
    litigare per litigare producendo un rumore di fondo dove ragioni e argomenti sono cancellati da una logica da tifo calcistico dove sembra vincere chi grida di più, chi la spara più grossa e comunque chi assolutizza le proprie posizioni e scomunica tutti gli altri, secondo me non è discutere.
    io posso avere torto, sbagliarmi, non capire bene questa o quella cosa, ma mi sforzo di argomentare le mie posizioni e di cercare di produrre approfondimenti.
    i vostri post sono in coda ad un lungo articolo diviso in due parti.
    non è obbligatorio né leggerlo né commentarlo. ma dovreste capire che è un po strano che pretendiate che si discuta di due righe di frasi perentorie quanto vacue che pubblicate voi invece che del mio articolo.
    addirittura michele si chiede se sono così urticanti i pareri discordi col mio pensiero.
    ma davvero si pensa che scrivere due frasette che non criticano nulla e che non tentano di confutare nulla sia esprimere un parere degno di essere preso in considerazione?
    davvero si pensa che ripetere ossessivamente frasi fatte e slogan, magari pubblicandole in dieci siti diversi sia “partecipare” a una discussione?
    perché certe cose si mettono sul mio blog se mi si considera un cretino, o un carrierista, o un degenerato, o un traditore, o un imbroglione, e così via? perché?
    davvero ci si ritiene così furbi da pensare che mettere qui due slogan possa far cambiare opinione a qualcuno?
    per cui, alla fine, io rivendico il diritto di dire che ritengo questo modo di discutere semplicemente una cazzata, una imitazione della politica spettacolo dei talk show. e rivendico il diritto di dire “andate altrove” e divertitevi come volete ad insultarvi e a litigare senza costrutto.
    come vedete qui c’è anche chi pubblica appelli, documenti, posizioni e dichiarazioni di tutti i tipi. usano il mio blog per propagandare cose che non c’entrano. per me non c’è problema. possono farlo. ma come io non metto il mio articolo su altri siti per farlo conoscere e magari discutere a chi va in altri siti posso ben dire che per discutere di documenti e articoli e posizioni e dichiarazioni non mie è meglio andare altrove.
    inoltre, come vedete, se qualcuno mette un commento che non c’entra con l’articolo ma che è interessante si può discutere in modo interessante. basta far l’esempio di ciò che ha scritto annared sulla cina e le mie risposte. se lei avesse scritto “viva la cina comunista a morte i traditori che la criticano!” io avrei risposto di andare altrove a discutere così. invece, pur avendo posizioni molto distanti si può discutere con rispetto reciproco ed anche approfondire i ragionamenti. sempre che si abbiano argomenti e ragioni per farlo.
    difficile da capire?
    si, a quanto pare è difficile.
    ciao

  75. cari gio e luca marini, dire che è deludente che si discuta del documento politico e di altri eventuali per mettere le basi politiche della costruzione della federazione mi sembra sbagliato. io non ho partecipato alla discussione del consiglio. non ne faccio parte e del resto sono stato all’estero e in giro in italia e sono tornato solo ieri a roma. ma non mi spiace che si sia scelto di evitare un congresso sull’elezione dei gruppi dirigenti invece che sulla politica. ma è fuori di dubbio che sulla politica si voterà liberamente nei congressi territoriali. e nella contingenza attuale con probabili elezioni anticipate è molto meglio discutere del documento ed approvare le proposte politiche. tutto qui.
    ciao

  76. Io Ramon non ti chiamo cretino, ne ingenuo ne altro, però a volte si commenta un fatto anche solo con due parole per la sorpresa lo sconcerto o altro. Magari non sempre c’è la mente lucida per argomentare il tutto, ma non mi par di offendere nessuno mai!!
    e sulla Cina credo di conoscere qualcosa proprio partendo dall’esperienza personale, con questo non penso che quello cho visto e discusso della Cina sia la “verità” io reputo persa la causa del socialismo, può essere che sbagli certo, ma già la storia ci ha insegnato qualcosa.

    Sul merito dei delegati nazionali al congresso FeD non è poca cosa che ogni particolarismo si elegga i suoi delegati e infine i suoi dirigenti correggimi al Brancaccio non era stato detto “una testa un voto” e pensare che questo sia negativo è assai preoccupante da parte del gruppo dirigente.
    tutto qui saluti

  77. ops FdS scusasse gli errori di battuta

  78. Richi le tue sono parole in libertà,ma dico non ti accorgi delle fregnacce che scrivi? Secondo me sei notevolmente confuso….e magari pensi di essere chissa chi…..Giudichi,fai illazioni,critichi e tiri legnate verbali….e poi di fronte ad argomenti seri torni a cuccia e fai la pecorella…via richi schiena dritta….e che c….

  79. luca marini Says:

    Ramon se ho capito bene il documento che comunque arriverà in discussione nei territori è uno solo, non ci sono ad oggi documenti alternativi perchè mi sembra ci vogliono 4 firmatari del consiglio nazionale della federazione. Ho capito si possono fare tesi ed emendamenti alternativi anche se i tempi ristretti vanno un po’ a minare la riuscita della scrittura di tesi ed emendamenti che vermanete possono modificare il testo. Quindi in pratica o si vota a favore o contro o ti astieni sull’unico documento e mi chiedo se coloro che respingono il documento principale rietreranno tra i delgati. Cioè chi decide i delegati????
    A quanto ho capito saranno i delegati 600 a decidere su simbolo, linea politica, statuto etc e dirigenti nazionali, quindi l’elezione dei dirigenti ci sarà ugualmente solo che saranno in 600 ad eleggerli. L’unica cosa che ho capito è che la platea sarà 44%, 30%, 13% e 13% , quindi non una testa un voto come è stato scritto ieri su liberazione. Penso che gli iscritti vengano perciò esautorati di diverse decisioni e comunque la platea non tiene fede della reale composizione degli iscritti alle varie forze politiche. Al di là della reale discussione politica che ci sarà e al di là di quanto la discussione incidera sulle scelte finali e penso molto poco, beh non mi sembra proprio un “monumento alla democrazia nè partecipativa nè elettiva.

  80. certo richi, tu dici fregnacce. Quelli invece che sono stati capaci di mettere alla porta nichi vendola al congresso di chianciano, quelli sono dei geni. Dirigenti politici acuti e lungimiranti, sopratutto, direi, capaci di porsi in sintonia col popolo che vorrebbero rappresentare. Ma che te ne fai, richi, di rosa luxemburg e gramsci dinanzi a questi autentici colossi del movimento comunista mondiale, che per paura che qualcuno volesse sciogliere il loro partito hanno ben pensato di scioglierlo loro, riducendolo ad una sigla affianco alla quale, ormai, nei sondaggi non compare più un numero ma un asterisco…

  81. Rudy…chi? ma suvvia ti riponde Luca Marini delle mie fregnacce, e poi cosa scegli pistola o sciabola?

    Marini hai perfettamente ragione la platea congressuale è scelta con quelle percentuali dalle “norme democratiche interne dei singoli soggetti” ma ti rendi conto cosa siamo riusciti a scrivere, t’immagini quali norme, possa avere Salvi e Patta che sono non si sa bene cosa, e già Belotti chiede di essere rappresentato con i suoi e magari l’ernesto farà uguale, e magari essere comunisti idem è questo un modo di procedere democratico? poi son rimasto sorpreso di Jacopo Venier che sul suo sito facebook ha messo per scritto gli appunti della riunione nazionale basta cliccare gente e si legge tutto e non solo le offese tra Masella e Sorini caro Ramon non mi dire che è gossip è un segnale della profonda divisione che esiste nelle nostre fila purtroppo, poi tu puoi nasconderle non parlarne, io penso che bisognerebbe ripartire da capo con nuovi gruppi dirigenti , ma forse sogno..
    saluti

  82. Ramon, il fatto è che:
    “La storia non contiene
    il prima e il dopo,
    nulla che in lei borbotti
    a lento fuoco (…) la storia
    non si fa strada, si ostina,
    detesta il poco a poco, non procede
    né recede, si sposta di binario
    e la sua direzione
    non è nell’orario”.
    Ovviamente questo non lo dico io
    bensì Montale, che non solo non era marxista ma non era manco di sinistra. Però in questa poesia c’è della verità (sì, ci sono poeti migliori di Vendola) ed è per questo – NON per nominalismo – che io propongo la moratoria (se non la pensione) per il concetto di “società di transizione”, che nel 95% dei casi NON ci ha aiutato a capire, a interpretare i dati (anzi, ha generato per l’appunto nominalismo) e spesso si è rivelata una brutta trappola.
    Tu stesso deprechi chi ragiona per “sbocchi ineluttabili”, e proprio per questo bisogna essere estremamente sobri quando si parla di “traiettorie e direzioni” di una data formazione sociale concreta, realmente esistente.
    Queste traiettorie e direzioni non sono ovviamente imperscrutabili, però sono il risultato di spinte diverse e spesso in direzioni contrastanti: la lotta di classe e i suoi sbocchi politici, la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, il contesto internazionale. Ne risultano fasi di cambiamento accelerato (comunemente dette “fasi di transizione”) e fasi tendenzialmente più lunghe di assestamento, di consolidamento, di cristallizzazione dell’esito dello scontro di classe e dei nuovi equilibri: quelle fasi in cui chi è al potere e ci sa fare ottiene magari pure un certo (qualificato e provvisorio) “consenso”.
    Poi a un certo punto (per fortuna) i giochi si riaprono, magari con violenza inaudita (L’Ottobre, Gorbaciov eccetera) e la storia prende una piega inaspettata, che pochissimo ha a che fare con la “transizione” dal punto A al punto B. Nulla di totalmente “imprevedibile” o peggio “inspiegabile” (altrimenti non saremmo marxisti) ma di INASPETTATO questo sì.
    Invece la “società di transizione” spesso è un ostacolo concettuale (quando non è una foglia di fico): ricordo il compianto compagno Maitan (grande persona e grande politico, tranne per quanto segue) che entrò in DP e ci fece scrivere nel documento congressuale che dopo la perestroika e le privatizzazioni di Gorbaciov “sarebbe ripresa la transizione al socialismo” in Urss. Niente male, eh? Questo perché loro si portavano dietro questo pesante fardello concettuale della “transizione bloccata”.
    E abbiamo fatto la proverbiale figura del picio, nel senso che dopo aver parlato per anni sostanzialmente – e direi correttamente – di capitalismo di stato in Urss, ci siamo ritrovati nel momento “clou” con una parola d’ordine decisamente inservibile.
    Conseguenze politiche, Ramon, altro che nominalismo.
    Questo beninteso con la tua attività agli esteri del PRC non c’entra nulla: hai fatto benissimo ad aumentare i contatti col PCCinese, se non altro per capire meglio, appunto. La cosa più importante è capire e – mi ripeto – quest’idea della “società di transizione” (ma poi quale transizione? Quella millenaria di Cossutta, quella bloccata di Maitan, quella verso il capitalismo di Bordiga?) non ci ha aiutato a capire.

  83. caro richi, come vedi a frasi sommarie seguono insulti (rudy) e poi arriva un certo carlo a darti manforte con post ironico e insultante. e così all’infinito.
    io non cancello ma dico: che pena! che miseria! che brutta copia della politica spettacolo (avanspettacolo di quarta categoria!)
    tu puoi dire ciò che vuoi ma questo non è ragionare, non è discutere.
    è vero che non hai insultato. ma io ugualmente ripeto che frasi e slogan provocano solo risposte analoghe e il passo verso gli insulti, le grida, le ironie da quattro soldi, è brevissimo.
    così, invece che discutere di cose serie, magari con critiche aspre ma fondate, ci si diverte a contrapporsi all’infinito.
    insisto nel dire che ci sono mille altri siti dove si fa così.
    ma capisco bene che c’è chi pensa che fare politica sia passare ore su internet lasciando messaggi e post con l’idea che questo sia “partecipare”. e siccome questo blog è frequentato da un po di persone allora è appetibile per lasciare la pipi e segnare il territorio.
    non ce l’ho con te. non so chi sei e rispetto pure il tuo anonimato.
    ma prendi atto che questo è il mio blog personale e che ho tutto il diritto, senza applicare censure, di dire che preferisco discutere seriamente.
    tutto qui.
    ciao

  84. caro luca, io considero fondamentale che le scelte politiche si faranno votando un documento che contiene la decisione di fare l’accordo senza entrare al governo. ci sarà sicuramente chi proporrà di non fare nessun accordo e forse anche chi proporrà di fare un accordo di governo. in ogni caso su questo si voterà liberamente con il sistema di una testa e un voto. potrai se lo vorrai presentare anche nel tuo congresso territoriale un emendamento o un documento alternativo.
    penso che aver scelto di concentrare su questo il congresso rinviando di fatto a dopo i congressi di partito la costruzione dei gruppi dirigenti della federazione sia certamente un limite ma sia anche la prova che la federazione è un processo e che è sbagliato chiudere tutto oggi e registrare le mille divisioni che esistono ma che non sono feconde.
    capisco che tu non sei d’accordo ne sulla federazione ne sulla proposta politica.
    ma non è che siccome non si è d’accordo ogni due giorni bisogna trovare l’ultimo motivo per ribadirlo.
    lo dico davvero rispettando le tue posizioni.
    però devi ammettere che se ogni cosa che si fa è la dimostrazione che è tutto sbagliato, che tutto è un fallimento, che tutto è fatto da dirigenti incapaci, che tutto si giudica in base ai sondaggi, e chi più ne ha più ne metta, non ne può scaturire che una contrapposizione infinita.
    lo so che tu non hai detto che tutto è sbagliato ecc. ma come vedi anche solo dalla lettura dei post qui su questo blog è un’orgia di posizioni inconciliabili.
    infine. la federazione ha pubblicato i documenti.
    perché non si interviene sul sito della federazione o sui siti dei partiti invece che qui?
    perché sul blog di ramon mantovani bisogna discutere di tutto tranne che di ciò che scrive ramon mantovani?
    io non leggo il milione di cazzate che c’è ogni giorno su facebook. ogni giorno ci sono fondazioni di nuovi partiti. illazioni, pettegolezzi. accuse controaccuse. ogni giorno c’è un appello e poi ce ne sono altri totalmente in contrasto fra loro.
    io penso che per ogni cosa ci sia il luogo e il tempo adatto per discutere.
    nessuno mi ha convinto che sia più utile partecipare ad un caos che alla fine non fa che confondere le idee a tutti.
    un abbraccio

  85. caro alfonso, come hai visto io non ho usato il concetto di transizione né nel mio articolo né rispondendo sulla cina ad annared. proprio perché penso che sia fuorviante. tuttavia preferisco discutere dei contenuti reali e di analisi reali piuttosto che discutere del concetto di transizione e della sua presunta funzione negativa. è proprio una discussione nominalistica quella fatta in questo modo.
    per il resto io sono abbastanza d’accordo con molte cose che dici.
    ciao

  86. Caro Ramon, io non ho mai scritto di essere un astensionista di principio (bisogna prestare attenzione quando si legge!) semplicemente che l’astensione è un’opzione praticabile in determinate circostanze, proprio come la partecipazione elettorale…
    Riguardo al tuo concetto di dogmatismo, se tanto mi da tanto lo è, dogmatica, anche quella corrente di pensiero che tra i riffe e i raffa dei diversi approcci e analisi approda al solito dunque: accodarsi al carrozzone che garantisce la presenza nel palazzo del re. Tu, Vendola, Ferrero, Diliberto, Bertinotti, nei vostri ragionamenti partite da premesse diverse per giungere alla stessa conclusione: ahinoi non si può che andare col centro sinistra!… Nel migliore dei casi da resistenti, ops, pardonne-moi, DESISTENTI!
    Ti allego un interessante intervento che taglia la testa alla questione, almeno dal mio punto di vista, è un po’ lungo…
    un saluto da un comunista che cerca qualcosa di più di un semplice aumento salariale…. altrimenti, tanto vale essere del PD… sic!

    “Lettera dal fondo dello sfacelo
    Di Marino Badiale, Massimo Bontempelli

    L’Italia, dopo tre decenni di decadimento civile e morale, è giunta ormai al suo sfacelo come nazione e come società. Il lavoro non vi ha più diritti, dignità, ascolto. Ogni legalità è travolta dal potere delle mafie, dalla regolazione dei rapporti economici e professionali attraverso la corruzione, grande o piccola, e da costi e tempi, per molti insostenibili, del ricorso al sistema giudiziario. L’avvelenamento dei suoli, dei corsi d’acqua e delle catene alimentari è oltre il livello di guardia. Istituzioni come la scuola e l’università, fondamentali per il paese, sono ormai distrutte, nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica. Le città sono soffocate da una circolazione automobilistica insensata, che sequestra le strade e avvelena l’aria. Mancano servizi che rispondano a esigenze reali, talvolta drammatiche. I rapporti tra le persone sono imbarbariti. E su tutto questo si è abbattuta la crisi economica mondiale che sta mettendo in questione, per larghi settori dei ceti subalterni, anche livelli minimi di benessere. Di questo sfacelo, effetto di un meccanismo economico esclusivamente volto al massimo profitto di breve periodo, è responsabile in prima battuta l’attuale casta politica, che è la facilitatrice di quel meccanisno, e che dimostra, nella sua interezza, di disinteressarsi sia dello stato drammatico del paese sia della crisi economica, e di essere unicamente interessata ai propri interni e interminabili giochi e controgiochi di potere. Ma corresponsabile dello sfacelo è anche chi vota per uno qualsiasi dei raggruppamenti interni a tale casta, e quindi anche chi alle prossime elezioni regionali darà il suo voto ad una delle sue liste. Basta infatti un po’ di onestà intellettuale per prendere atto dell’evidenza, e cioè che, se la casta berlusconiana è l’espressione di quanto di peggio c’è in Italia, il restante arco politico, dal centro alla cosiddetta sinistra radicale, contribuisce a generare quel peggio. Il ceto politico di centro,
    centro-sinistra e sinistra non si preoccupa infatti minimanente di fare qualcosa contro lo sfacelo del paese, non dà mai ascolto al mondo esterno alla casta politica, fa prendere le decisioni riguardanti la vita collettiva a burocrati di partito emersi da squallidi giochi di potere,
    agisce soltanto sulla base di opportunistiche motivazioni di breve periodo. I politicanti di centro, centro-sinistra e sinistra, insomma, non risolvono nessun problema, per cui la loro opposizione a Berlusconi si riduce ad una pantomima nella quale conta l’apparenza e non la realtà, mentre i meriti vengono mortificati e le speranze spente. Tutto ciò contribuisce a
    creare individui intellettualmente e moralmente degradati, interessati al mondo fittizio delle immagini anziché ai problemi reali del paese, e dunque predisposti ad apprezzare e seguire
    qualsiasi irresponsabile cialtrone abile nel vendere illusioni.
    Abbiamo dimostrato nei nostri scritti la necessità storica della comparsa di questa casta politica priva di progetti e del tutto autoreferenziale1. Tale necessità è insita nella configurazione dei rapporti tra poteri economici, funzioni statali e attività politiche derivate da
    ben individuabili trasformazioni del capitalismo e scelte della sinistra tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. I ceti politici attuali e i loro difetti sono quindi espressione di fondamentali dinamiche storiche, e la loro incapacità di risolvere i problemi reali e di esprimere dirigenti che non siano assolute mediocrità non rappresenta
    quindi un errore politico o di selezione dei gruppi dirigenti, ma esprime la loro essenza, il loro codice genetico. Pensare di liberarsi del settore peggiore della casta votando quello meno peggiore (o che in un certo momento appare tale, magari solo perché è all’opposizione), è
    quindi, nella migliore delle ipotesi, un’autoillusione politicamente poco intelligente, e deplorevole per i danni che contribuisce ad arrecare all’Italia. La scelta del male minore, infatti, risulta, in questa fase storica e rispetto a questa casta politica, la via che alimenta e
    rende vincente il male maggiore, perché non corregge minimamente la tendenza storica al continuo peggioramento della realtà sociale, tendenza a cui l’intera casta politica è omogenea. La storia recentissima lo rivela nella maniera più evidente a chi abbia l’onestà di
    ricordarla per quello che è stata. Berlusconi, vinte le elezioni nel 2001, ha governato nella maniera più rovinosa per il paese fino al 2006, ma cominciando a perdere vistosamente consensi a partire dal 2004. E’ sembrato quindi relativamente facile e molto ragionevole,
    all’opinione pubblica antiberlusconiana, cacciarlo definitivamente votando per la coalizione di centro-sinistra guidata da Prodi. E infatti quest’ultimo vince le elezioni del 2006, sia pure di strettissima misura (vi è infatti una sorprendente rimonta del centro-destra per l’effetto
    congiunto della potenza illusionistica ed alienante delle televisioni berlusconiane e dell’insipiente povertà del messaggio prodiano), ma guadagnando comunque il premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale. Facciamo ora un esperimento mentale. L’immagine che il medio elettore di sinistra ha di Prodi è probabilmente quella di un ex-democristiano sostanzialmente onesto. Proviamo però a
    pensare che tale elettore abbia avuto il coraggio morale di informarsi un po’ meglio su chi sia Prodi, e sia venuto quindi a conoscenza della tante tracce che fanno sospettare un Prodi meno onesto di quel che si vuol far sembrare, e del fatto accertato che si tratta di un uomo della Godman Sachs, la potentissima banca speculatrice2, dalla quale è stato per anni
    lautamente stipendiato, con conseguenti conflitti di interessi messi in luce, per esempio, dalla stampa britannica. Immaginiamo inoltre che il medio elettore di sinistra si sia reso conto che un uomo così organicamente legato alla grande finanza speculatrice internazionale non potrà mai, per la contraddizion che nol consente, governare a vantaggio del lavoro, della legalità, dell’indipendenza nazionale, dell’ambiente. Immaginiamo infine che, avendo in tal modo capito che un governo Prodi sarebbe stato un “male minore” troppo malefico, non lo abbia
    votato alle elezioni del 2006. Avrebbe allora vinto il “male maggiore”, Berlusconi, ma un Berlusconi con un consenso popolare decrescente, che avrebbe incontrato nella società opposizioni sempre più consistenti, da cui avrebbe potuto prendere avvio una ricostituzione del tessuto civile e morale del paese, unico presupposto per superare con il tempo il
    berlusconismo (la sconfitta del berlusconismo nel breve periodo è comunque illusoria, perché si tratta del precipitato di un decadimento della fibra morale del paese che sopravviverà alla
    stessa ingombrante presenza dell’uomo). Torniamo ora dall’immaginazione alla storia reale. Nelle elezioni del 2006 Prodi ha sconfitto Berlusconi. Il suo governo non ha fatto nulla per restituire dignità e diritti al lavoro: l’immensa ricchezza concentrata nei grandi patrimoni non è stata minimamente toccata, di conseguenza
    nulla è stato restituto ai lavoratori, né sotto forma di servizi sociali, né sotto forma di un diminuito prelievo fiscale, mentre il promesso cuneo fiscale è stato fatto a profitto delle imprese, senza nessun beneficio per i lavoratori, vittime nello stesso tempo dei tagli di bilancio in funzione del risanamento finanziario. Il governo Prodi non ha fatto nulla per
    ristabilire in Italia un minimo principio di legalità, e basti menzionare a questo proposito, per evitare un discorso di dettaglio che sarebbe lunghissimo, Mastella nominato ministro della
    Giustizia, DeGennaro commissario straordinario per la Campania, Pollari consulente governativo, Pomicino nella commissione antimafia, e l’indulto esteso ai reati di corruzione. Il governo Prodi non ha fatto nulla per invertire la tendenza al progressivo degrado ambientale. Quanto poi all’indipendenza nazionale, il servilismo verso gli Stati Uniti è stato totale, con il rifinanziamento della missione di guerra in Afghanistan, l’acquisto di sistemi d’arma offensivi, l’autorizzazione all’ampliamento della base di Vicenza, ed il moralmente vergognoso segreto di Stato opposto da Prodi, a conferma di quanto già fatto da Berlusconi, all’indagine sul
    rapimento in Italia di Abu Omar, spedito dagli americani verso le torture egiziane, in spregio alle leggi italiane. Nulla, insomma, è venuto dal governo Prodi che potesse far percepire ai lavoratori un’attenzione ai loro interessi e, più in generale, una sollecitazione alla rinascita
    etica e culturale del popolo italiano. Il risultato è che, ad un popolo sempre più degradato, la grigia realtà di Prodi ha fatto dimenticare una disaffezione a suo tempo iniziata verso Berlusconi, ed ha reso preferibili le illusioni vendute dal grande illusionista mediatico. Berlusconi è così tornato a governare, nel 2008, con un consenso e una forza che non
    avrebbe avuto se avesse direttamente vinto le elezioni del 2006.
    Chi voglia abbandonare viltà e rassegnazione, e cercare di trarre insegnamenti dalla storia, non può avere dubbi sul fatto che affidarsi ai settori di centro, centro-sinistra e sinistra della casta politica per sconfiggere il berlusconismo è come cercare di distruggere una mala pianta coprendola del concime che la fa crescere. Il berlusconismo è una mentalità degradata profondamente attecchita nella società italiana dopo un lungo periodo di decadenza iniziato negli anni del craxismo. Non ci sono scorciatoie politicistiche di breve periodo per sconfiggerlo, tanto meno scorciatoie che pretendano di utilizzare pezzi di casta superficialmente in opposizione ad esso, ma nel profondo imbevuti della sua stessa incultura, della sua stessa separazione fra parole e fatti, tra propaganda e realtà, e solo dotati di stile retorico e comportamentale generalmente meno rozzo. L’impegno ad ampio spettro e di lunga lena per sconfiggere il berlusconismo non può dunque esprimersi altro che in un contrasto duro ed intransigente contro l’intera casta politica cialtrona, corrotta, incolta, parassitaria, parolaia e prepotente che occupa le isituzioni statali e locali, senza far caso alle sue distinzioni e contrapposizioni interne di potere e di affari. E’ facile a qusto punto aspettarsi la tipica domanda polemica, figlia della viltà e della
    rassegnazione: chi dovrebbe andare a sostituire i politici attuali? Qual è l’alternativa? Che è come dire, dal chiuso di un edificio saturo di gas che ci sta soffocando fino alla morte: ma se usciamo, chi c’è fuori ad accoglierci? Dove troveremo le prime cure? Evidentemente coloro
    che così obiettano non si sentono abbastanza soffocati dallo sfacelo attuale, perché vi si sono per certi versi adattati, sono anch’essi un po’ imbevuti, senza saperlo, di berlusconismo. La risposta è che un’alternativa non nascerà mai se prima non si inizia la lotta contro l’intera casta politica, in funzione di ciò di cui c’è oggettivamente bisogno.
    Per uscire dal baratro sociale e spirituale nel cui fondo attualmente ci troviamo non basta assolutamente cacciare Berlusconi con tutta la sua cerchia di disgustosi manutengoli e profittatori, e non basta neppure cambiare qualcuno degli obiettivi che si propongono i ceti
    politici di destra, centro e sinistra. Ciò di cui c’è urgente, disperato bisogno per non affondare sempre più è l’inversione stessa della logica che oggi guida tutte le scelte politiche. C’è bisogno di smettere di colmare i deficit di bilancio tassando in maniera esorbitante e
    macchinosamente oppressiva il lavoro, le professioni e la piccola impresa, e di cominciare a prelevare risorse da tre fonti: tassando duramente i grandi patrimoni nati dalla speculazione finanziaria ed immobiliare e dall’evasione fiscale, eliminando tutte le missioni militari all’estero e l’acquisto dei connessi sistemi d’arma, riassorbendo le rendite della corruzione attraverso l’eliminazione della medesima. Un mezzo indiretto ma importante per sconfiggere la corruzione e nello stesso tempo per allargare le entrate statali senza incidere su salari e
    servizi, sarebbe quello di una tassazione di tutte le inserzioni pubblicitarie alla televisione e negli spazi pubblici. Con tutti questi mezzi si otterrebbero risorse immense, di cui c’è bisogno per creare, o ricreare, una serie di servizi sociali gratuiti sostitutivi di quelli di mercato, aumentando per questa via le disponibilità dei lavoratori senza neanche bisogno di aumentarne le retribuzioni monetarie, e riassorbendo la disoccupazione con tutto il personale necessario a farli funzionare, contro la logica attuale di produrre disservizi riducendo dovunque il personale. C’è bisogno di scegliere non più secondo la logica affaristica e mercantile, ma secondo la logica di ristabilire e tutelare i diritti del lavoro e della salute. C’è bisogno di scegliere quali opere costruire secondo la logica di evitare il consumo ulteriore del territorio e di proteggerne l’integrità, concentrandosi sulla manutenzione costante e sui piccoli
    aggiustamenti delle infrastrutture esistenti, e bloccando quindi tutte le cosiddette grandi opere, che servono soltanto a mettere in moto appalti, tangenti e corruzione, spesso a vantaggio delle mafie. C’è bisogno di una logica di contrasto intransigente della corruzione, accentuando i controlli di legalità della magistratura mediante procedure semplificate e rapida
    esecutività della sentenze. E il discorso potrebbe e dovrebbe continuare.
    Per poter impostare un simile rivolgimento rispetto alle logiche attuali, bisogna in sostanza abbattere il regime della casta politica, con i suoi addentellati nei media, nell’economia, negli apparati statali. Non sembri eccessivo definire l’attuale realtà politica italiana come “regime”.
    Si può parlare di regime quando il sistema politico è guidato da un’unica logica, e i portatori di logiche alternative sono emarginati dalle istituzioni e nella società civile e non hanno accesso se non occasionale a nessun tipo di tribuna. La nozione di “regime” è logicamente indipendente dal fatto che il sistema politico ammetta oppure no pluralità di partiti. L’Ungheria di Horthy presentava pluralità di partiti, ma si trattava di un regime, perché i vari partiti eprimevano la stessa logica. Mentre la Germania guglielmina non era un regime: benché il potere reale fosse saldamente i mano ai ceti dominanti, i socialisti, portatori, almeno per una
    fase, di una logica alternativa rispetto ai ceti dominanti, erano presenti in parlamento e avevano mille ramificazioni nella società civile.
    In Italia siamo in presenza di un regime, e questo lo si vede da come siano emarginate o assenti, nel dibattito pubblico, posizioni che esprimano logiche davvero alternative, come quelle sopra ricordate. Lo si vede anche da come ormai tutti i percorsi professionali non dipendano mai da meriti e da regole trasparenti, ma dipendano invece dal patrocinio di qualche partito che conta. Proprio come all’epoca del regime mussoliniano la tessera del partito fascista era la condizione per far carriera, così è oggi, con la sola diifferenza che il partito benefattore e corruttore non è unico, ma plurale. Ma se si accetta questo punto, il fatto
    cioè che l’Italia è oppressa dal regime di una casta politica che sta portando il paese allo sfacelo, è chiaro che ciò di cui c’è bisogno è un nuovo CLN, una nuova lotta di liberazione nazionale.
    Le forze per dar vita a questa lotta ci sono, e fanno riferimento a tre aree, che si distinguono dall’istanza principale sulla quale si focalizzano: da un parte l’area che si ispira a principi di giustizia sociale (più o meno l’area di chi, fuori dalla casta, si definisce ancora “comunista”),
    poi l’area di chi mette al centro il problema della legalità (“popolo viola”, “grillini”, “Il fatto quotidiano”), infine l’area degli ecologisti (ovviamente quelli veri, estranei alla piccola burocrazia del partito verde). Queste forze sono per il momento bloccate da alcuni ostacoli. Il primo, più evidente ma meno importante, sta nel loro essere minoritarie: è un dato di fatto, ma non è così importante perché tutti i grandi rivolgimenti partono sempre da minoranze. Il secondo e più serio ostacolo sta nel fatto che queste tre aree tendono ad essere divise ed anche in opposizione tra loro. Questa divisione è un errore grave, perché nella situazione italiana attuale ciascuna delle istanze sopra indicate si completa nel riferimento alle altre due, e separarle significa indebolirle e votarle alla sconfitta. Ad esempio, chi lotta contro la casta in nome della giustizia sociale e dei diritti dei lavoratori spesso è diffidente nei confronti delle istanze di legalità. Ma in questo modo non si rende
    conto che la corruzione della casta non è un dato marginale e poco interessante, ma è l’espressione dell’asservimento della casta stessa ai poteri economici interni e internazionali che richiedono la distruzione dei diritti dei lavoratori. La corruzione, cioè, è la forma specifica
    che assume in Italia l’asservimento del paese ai poteri economici interni e internazionali. Infatti un ceto politico che difendesse i diritti dei lavoratori dovrebbe lottare contro potentissime forze interne e internazionali. E’ pensabile che una qualsiasi delle bande di
    corrotti che costituiscono l’attuale ceto politico possa farlo? Ovviamente no, appunto perché sono corrotti e i corrotti non hanno né il desiderio né la forza di lottare contro chi li foraggia. Ma se questo è chiaro, lottare contro la corruzione della casta significa appunto lottare contro
    lo strumento politico di quel potere economico che distrugge i diritti del lavoro, e il controllo di legalità è l’arma migliore per questa lotta.
    Dall’altra parte, chi difende il principio di legalità ignorando la giustizia sociale e i diritti dei lavoratori commette un doppio errore. In primo luogo un errore di analisi, perché non vede come l’attacco alla legalità sia strettamente legato alle dinamiche del capitalismo contemporaneo. In secondo luogo, di conseguenza, un errore politico, perché non capisce
    che l’appello alla legalità può vincere solo se si collega alla forza sociale dei ceti subalterni che lottano contro il degrado cui li condanna l’attuale sistema economico, mentre se li ignora o li considera con diffidenza l’appello alla legalità resta un tema minoritario. Analoghi discorsi
    valgono per le tematiche dell’ecologismo e della decrescita.
    Per iniziare una lotta di liberazione nazionale dalla casta che ci soffoca, occorre dunque che queste tre aree superino gli ostacoli che le dividono e trovino un linguaggio comune. Condizione preliminare e irrinunciabile è però la rottura totale con l’intero arco della casta
    politica. Occorre rompere ogni contiguità rispetto alla casta, occorre rinunciare completamente all’idea di influenzare questo ceto politico. I militanti onesti dell’IdV devono abbandonare il partito, dato che l’ultimo congresso ha segnato con chiarezza il suo ingresso nella casta. Gli ecologisti onesti devono abbandonare al suo destino il ceto politico “verde”. Chi difende i diritti del lavoro deve rompere ogni contiguità col ceto politico “comunista” che non sa fare altro che contrattare con la casta principale un proprio piccolo ruolo come casta di scorta.
    Per ritornare alle prossime elezioni regionali, in mancanza di una forza politica che esprima una logica alternativa a quella della casta, occorre cercare di capire quale sia il modo migliore per danneggiare il più possibile la casta stessa. L’astensionismo sarà una scelta obbligata
    dovunque non siano in campo che le liste della casta: PDL e alleati, UDC, PD e alleati, sinistra. Meglio sarà, laddove siano presenti, il voto per liste che diano sicure garanzie di contrapposizione alla totalità della casta. In quest’ultimo caso non bisogna dare troppo peso al fatto che i programmi di tali liste presentino contenuti non condivisibili, perché se davvero
    esse rifiutano ogni contiguità con la totalità della casta non avranno la possibilità di attuare i loro programmi. Il voto per tali liste danneggerebbe però la casta per due motivi: in primo luogo farebbe diminuire le percentuali di voti guadagnati dai suoi partiti, che sono gli unici dati elettorali che ricevono attenzione, in secondo luogo gli eletti di tali liste potrebbero rappresentare un piccolo ostacolo alla casta proprio per la loro estraneità ad essa. La scelta migliore, possibile purtroppo soltanto in pochi casi, sarebbe comunque quella del voto a liste
    di cittadini impegnati su temi di difesa della legalità, dell’ambiente, della solidarietà sociale, e conseguentemente in contrapposizione totale ed intransigente all’intera casta politca istituzionale.
    In ogni caso bisogna avere chiaro che le elezioni resteranno un fatto interno al regime finché non nascerà una forza politica che contesti la logica di fondo delle attuali scelte politiche e si faccia portatrice di una logica alternativa. Far nascere una simile forza politica deve essere
    l’obiettivo principale di chi voglia lottare contro lo sfacelo del nostro paese”.
    Marzo 2010

  87. caro antonio, io ho letto attentamente. se ho scritto che nutro rispetto per gli astensionisti di principio (come gli anarchici che pure hanno fatto eccezioni come nella repubblica spagnola) l’ho fatto per dire poi che ne nutro meno per chi, come te, elenca indimostrate condizioni per parlare di astensionismo come scelta per l’oggi.
    la differenza fra l’articolo di badiale e bontempelli, che per altro conoscevo già visto che è pubblicato in più siti come diversi altri loro scritti ispirati dalle teorie della decrescita ecc, e ciò che sostengo io è evidente dal confronto dei rispettivi scritti.
    la “casta” della quale farei parte e che merita di essere distrutta sia attraverso l’astensionismo sia votando liste civiche (sic!) è una premessa che non posso condividere.
    in ogni caso io non vado sui siti sui quali pubblicano e vengono ospitati i due per metterci le mie modeste riflessioni. tanto meno su quelli come eurasia o come quello di massimo fini.
    ciao

  88. Ramon, un congresso “una testa un voto”, come tu hai affermato più volte e come era scritto nel documento fondativo della Federazione, significa un congresso in cui ogni testa di un iscritto alla Federazione vale un voto, a prescindere dal partito di provenienza.
    Invece si farà un congresso per delegazioni partitiche, chiuso al contributo di chi magari vorrebbe partecipare alla Federazione ma non è iscritto al Prc o al Pdci. È un peccato. Non un dramma, non un crimine, ma un peccato sì.

  89. Anche a Cuba sono state approvate una serie di riforme verso un “socialismo di mercato” ispirato al modello cinese.

    Meno Stato più privato. Una sfida gigantesca
    di Roberto Livi, su Il Manifesto del 15/09/2010

    500 mila statali in meno nel 2011

    Meno Stato e più privato. Dopo mesi di dibattito interno al governo e al Partito comunista questa sembra essere la formula decisa dal vertice cubano per la actualización (modernizzazione) economica (e sociale) necessaria per «continuare la costruzione del socialismo cubano».
    In sostanza si tratta di una serie di misure «necessarie e improcrastinabili» annunciate lunedì da un lungo comunicato della Central de Trabajadores de Cuba – Ctc, il sindacato unico dell’isola – che disegnano una riorganizzazione del sistema produttivo dell’isola («per renderlo più efficiente») e un impressionante trasferimento di lavoratori dal settore statale (che attualmente controlla circa il 95% dell’economia di Cuba) a quello cooperativo e privato.
    Entro il 2015 (ma probabilmente prima) si ritiene che circa un milione e 300 mila persone (un lavoratore su cinque) dovrà lasciare l’inflazionato organico delle «imprese e entità produttive e di servizi dello Stato». Di questi, ha annunciato il sindacato, mezzo milione (circa 100 mila solo all’Avana) saranno trasferiti entro il primo trimestre del 2011 al «settore non statale». A parte coloro che accetteranno una pensione anticipata, gli altri lavoratori dovranno orientarsi verso cooperative (soprattutto agricole e della costruzione) o iniziare un’attività por cuenta propria, ovvero privata. Secondo il sindacato, entrambi i settori (cooperativo e privato) dovranno assorbire «centinaia di migliaia di lavoratori» (si parla di 450 mila posti di lavoro nel settore privato entro il prossimo anno).
    Il mese scorso il governo aveva annunciato una serie di misure per favorire lo sviluppo del settore privato: licenze per lavoratori por cuenta propria o per imprese familiari, dai tassisti agli idraulici, dai parrucchieri a chi vuole aprire un’attività nella piccola restaurazione. Non solo, per la prima volta, viene concesso ai privati di assumere personale, naturalmente pagando le relative imposte.
    Secondo la Oficina nacional de Estadísticas nel 2009 la popolazione lavorativa cubana era di 5.7 milioni di persone (circa due milioni le donne) dei quali solo 143 mila 800 (30 mila 300 le donne) sono lavoratori por cuenta propria. Quest’ultimo settore non comprende i contadini proprietari delle terre che lavorano, ma le cifre sopraesposte danno comunque l’idea della gigantesca sfida che il governo cubano ha deciso di lanciare al modello (economico e sociale) di socialismo fin qui praticato. Il pieno impiego garantito dallo Stato, l’egualitarismo salariale, la libreta che assicura a tutti i cubani una serie di prodotti alimentari a bassissimi prezzi, i comedores obreros (mense operaie), non sono più sostenibili da un’economia in forte crisi e minacciata da un vero e proprio collasso.
    Il comunicato del sindacato – diffuso dai mass media – mette in luce anche le conseguenze sociali che comportano le misure decise dal governo di Raúl Castro. «Il nostro Stato non può continuare a mantenere…un organico inflazionato che genera perdite economiche ..e deforma la condotta dei lavoratori». In chiaro, come aveva già detto il presidente in suo discorso, il fatto che il pieno impiego sia possibile solo con salari inadatti ad assicurare il mantenimento delle famiglie cubane genera corruzione e furti generalizzati a danno dello Stato.
    La riduzione dell’organico del settore statale porterà anche a una riforma del salario con la fine dell’egalitarismo: «bisogna rivitalizzare il principio di distribuzione socialista, pagando secondo la quantità e qualità del lavoro effettuato. Il sistema di salario vincolato al risultato sarà la via per aumentare la produttività», recita il comunicato della Ctc.
    Come si è detto, le misure annunciate sono il prodotto di un lungo, e probabilmente duro, dibattito interno al vertice politico cubano (alcuni analisti, soprattutto fuori Cuba, cercano anche di personalizzare, parlando di un contrasto tra Fidel e Raúl Castro). Il compito di metterle in pratica – dunque di rompere l’immobilismo degli ultimi anni – comporterà una mobilitazione sociale (così chiede il sindacato) e soprattutto un vertice politico compatto.
    I tagli all’organico statale sono impressionanti: la decisione di come applicarli – soprattutto la trasparenza delle scelte nei posti di lavoro -, il riorientamento di una parte importante dell’economia rappresentano una sfida anche per il modello sociale fin qui praticato.
    Secondo l’economista Omar Everleny Pérez, citato dall’agenzia Ips, bisognerà recuperare – seppur criticamente – l’esperienza delle piccole e medie imprese (Pymes) che non riuscirono a decollare negli anni ’90 del secolo scorso. Assieme al lavoro privato, queste forme di integrazione tra economia privata e statale potrebbero assicurare maggior impiego, miglioramento di salari e soprattutto una decentralizzazione produttiva che porterebbe ad un aumento dell’offerta di beni e servizi. Una sfida, come appare in tutta evidenza, gigantesca e decisiva.

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    Importanti misure per difendere il nostro sistema sociale
    di Raul Castro, su Contropiano del 18/09/2010

    Intervento in Parlamento del Presidente del Consiglio di Stato e dei Ministri, Raul Castro Ruz

    (STRALCIO)

    Diverse agenzie di stampa e autonominatisi “analisti” del tema Cuba, con innumerevoli articoli e lanci di agenzia, hanno puntato per giorni, prima e dopo l’anniversario del 26 luglio, sul perentorio annuncio di presunte riforme del nostro sistema economico-sociale e l’applicazione di ricette capitalistiche per rianimare l’economia. Alcuni addirittura hanno avuto la faccia di descrivere una lotta dentro la Direzione della Rivoluzione e alla fine tutti concordano nel chiederci cambiamenti più rapidi e profondi nella direzione di smontare il socialismo.
    Esaminando freddamente queste campagne di stampa risulta evidente che quasi tutte le agenzie sono dirette da uno stesso filo conduttore. (…)
    Con l’esperienza accumulata in più di 55 anni di lotta rivoluzionaria sembra che non siamo messi tanto male e che la disperazione e frustrazione non siano nostri compagne di viaggio. Se ci elogiassero, allora sì avremmo motivi per preoccuparci.
    Come ha affermato il compagno Machado Ventura (NdT-che ha tenuto il discorso ufficiale il 26 di luglio): “proseguiremo con senso di responsabilità, passo dopo passo, con i tempi che stabiliremo noi, senza improvvisazioni nè precipitazione, per non sbagliare e per lasciarci definitivamente alle spalle errori e misure incompatibili con la situazione attuale”.
    L’unità fra i rivoluzionari e fra la direzione della Rivoluzione e la maggioranza del popolo è la nostra più importante arma strategica, quella che ci ha permesso di arrivare fino a qui e di continuare a migliorare il nostro socialismo.
    Anche se è doloroso per i nemici, la nostra unità è oggi più solida che mai e non è frutto di falsa unanimità o di simulazione opportunista: l’unità non esclude divergenze oneste, ma presuppone discussione di idee che anche quando sono differenti, hanno in comune il proposito finale di giustizia sociale e di sovranità nazionale. Questo ci permetterà sempre di arrivare alle migliori decisioni.
    L’unità si stimola e si accresce nella più ampia democrazia socialista e nella discussione con il popolo aperta su tutti i temi, per quanto delicati siano.
    Parlando di temi delicati, riferisco che dopo mesi di studio sulla modernizzazione del modello economico cubano, il Consiglio dei Ministri, nell’ultima riunione del 16-17 luglio, allargata alle amministrazioni provinciali, al sindacato, alle organizzazioni di massa, ha concordato un insieme di misure per arrivare, con diverse fasi, alla riduzione degli organici considerevolmente eccessivi nel settore statale.
    In una prima fase, che prevediamo di concludere nel primo trimestre del prossimo anno, si modificherà il trattamento lavorativo e salariale ai lavoratori disponibili di un gruppo di organismi dell’amministrazione centrale dello Stato, abbandonando quelle posizioni paternalistiche che sottovalutano la necessità di lavorare per vivere e riducendo così impegni di spesa improduttivi, com’è il salario uguale per tutti, indipendentemente dal numero di anni di lavoro, e la garanzia di un salario durante lunghi periodi a persone che non lavorano.

    (…)E’ necessario creare un clima di trasparenza e dialogo dove emerga un’informazione ai lavoratori corretta e impeccabile e dove le decisioni siano adeguatamente collegiali e si creino le necessarie condizioni organizzative.
    La stretta osservanza del principio di idoneità nel determinare chi ha più diritto di occupare un posto di lavoro deve contribuire ad evitare qualsiasi manifestazione di favoritismo, o di discriminazione di genere o di ogni altro tipo, deviazioni che devono essere affrontate con tutta fermezza.

    Il Consiglio dei Ministri inoltre ha previsto di ampliare l’esercizio del lavoro indipendente e la sua utilizzazione come un’alternativa in più d’occupazione dei lavoratori in soprannumero, eliminando diverse proibizioni esistenti per il rilascio di nuove licenze (…).

    E’ stato al tempo stesso approvato un regime tributario per il lavoro indipendente che risponda al nuovo scenario economico e garantisca che chi entra in queste nuove attività contribuisca alla prevenzione sociale, paghi imposte sui propri guadagni e quelli che assumono lavoratori paghino un tributo.
    Prossimamente si svolgerà un’assemblea ampliata del Consiglio Nazionale della CTC (NdT- Centrale Lavoratori Cubani, la federazione sindacale) dove, con i principali dirigenti operai, affronteremo in dettaglio queste importanti decisioni che costituiscono un cambiamento strutturale e concettuale, mirato alla difesa e sviluppo del nostro sistema sociale, perchè sia sostenibile nel futuro, così da rispettare il mandato del popolo di Cuba, raccolto dalla Costituzione, secondo cui il carattere socialista e il sistema politico e sociale sono irrevocabili.

    L’Avana, 1° agosto 2010

  90. AnnaRed purtroppo con Richi(?) butti perle ai porci…….il poveretto continua a sparare fregnacce in modo esponenziale….

  91. Anna fai bene a scrivere, comunque Ramon essendo un tuo blog personale posso anche non scrivere non temere, se poi un tal Rudy chi? invece riesce a far solo ironia…comunque visto che tutto va bene avanti così
    saluti

  92. peppe de angelis Says:

    come qualcuno aveva previsto, ramon, a napoli e in campania in questi giorni diversi istituzionali stanno lasciando il prc per aderire a sel. Si avvicinano le elezioni e questi signori evidentemente si sono convinti che lì è più facile la rielezione. La domanda, ramon, è questa: ma sono le istituzioni che trasformano molti compagni in opportunisti o è il meccanismo delle preferenze che fa si che vengono eletti sempre i peggiori tra i compagni?

  93. massimiliano piacentini Says:

    Agli strateghi:

    oggi alle ore 15.00 ­in piazza della Repubblica, a Roma, concentramento e manifestazione contro la vivisezione! Per cancellare Green Hill; contro la ricerca “medico-scientifica” che piace ai baroni, appoggiata e finanziata dal governo; per salvare “milioni di animali che ogni anno vengono torturati nei laboratori di vivisezione, sottoposti ad esperimenti crudeli, sfigurati, ingabbiati, incatenati, legati ai tavoli operatori, avvelenati e lasciati soffrire e morire”.

    Ciao Ramon, un saluto a pugno chiuso!!!

  94. Anonimo 3 Says:

    Ecco un’altra cosa che temo non serva piú a niente: chiudi una Green Hill qua e ne aprono 10, ancor meno controllate, di lá e per il di lá c’é una scelta enorme, i ¾ del mondo.

  95. Il programma di Telese e della costamagna Onda da Il Pdl al 27 – il Pd al 23 – Grillo al 2, 6 -SeL 4,9 – Prc (FdS) 4,3. Purtroppo non riesco a trovare un link, ma credo che tra un po’ metteranno la replica on line, perciò qualcosa posso fare.

  96. caro masaccio, hai perfettamente ragione. anche se quando abbiamo pensato il congresso non si poteva immaginare l’imminenza e probabilità delle elezioni anticipate. per fare un congresso pieno ci vogliono dai tre ai quattro mesi. ed è certamente meglio che tutti discutano della scelta politica da compiere piuttosto che di organigrammi.
    un abbraccio

  97. cara annared, paragonare la nep con le riforme cinesi è veramente sbagliato. e paragonare ciò che hanno intenzione di fare a cuba con la cina lo è altrettanto. ormai credo che siano chiari i nostri rispettivi punti di vista.
    ma ti propongo una cosa.
    tu metti delle riflessioni critiche sulle esperienze cinesi e cubane. e io mi eserciterò a dire le cose che considero molto positive. ci stai?
    ciao

  98. egregi rudy e richi, come volevasi dimostrare il vostro modo di discutere è solo una perdita di tempo inutile e anche dannosa. che nasconde l’incapacità ad approfondire e ragionare.
    ciao

  99. caro peppe, è la politica spettacolo separata dai problemi sociali, il maggioritario e il sistema delle preferenze a produrre il classico fenomeno che affligge il prc fin dalla sua nascita. per diversi il partito non è uno strumento per cambiare la realtà bensì un tram da prendere per andare dove si vuole.
    ciao

  100. Ecco il link del sondaggio che ci da al 4,3%:http://www.la7.tv/richplayer/index.html?assetid=50190223 al minuto 42

  101. Michele Manduci Says:

    Compagno Ramon,
    ho notato sul profilo Fb di Giorgio Cremaschi che è un tesserato Prc (ce l’ha scritto nel profilo) e devo dire che a me fa molto piacere.
    Buona serata

  102. Anonimo 3 Says:

    La discussione non si é allargata molto e d’altronde questi due articoli danno risposta a diverse domande e non resta molto da aggiungere, anche se alcuni punti potrebbero essere approfonditi. In compenso ho l’impressione che la fed non parta, che alcuni la vedano con sospetto, come l’ennesimo modo per superare rifondazione, magari rifondendosi con Vendola, oppure come un cartello elettorale atto a salvare qualche poltrona e se l’opposizione interna aggiunge ostacoli a quelli che giá ci sono, credo che diventi quasi impossibile portare avanti un qualsiasi progetto.
    E adesso, con la prospettiva di elezioni a breve, mi sembra di vedere nuovi pericoli di scissione, con troppi che inseguono i sondaggi e che sembrano farsi affascinare piú dalla quantitá delle presenze televisive che dai contenuti esposti. Dipenderá solo dal bipolarismo? A me pare di vedere anche tanto opportunismo e contemporaneamente sfiducia e paura nei confronti della dirigenza.
    Non sento un bel clima e non sento l’entusiasmo che dovrebbe spingere questo nuovo soggetto.
    Spero sia possibile seguire il congresso di novembre su una qualche televisione.

    Ciao.

  103. Compagni,
    penso che non tutto il male venga per nuocere. Se all’inizio avevo storto il naso quando ho visto che nel regolamento del congresso della Fed della Sinistra non era prevista l’elezion dei delegati, ora penso che sia un’opportunità maggiore per fare un congresso politico e non di nomine e bilancini. Finalmente potremo parlare della nostra linea, confrontarci senza diffidenze degli uni verso gli altri, perchè in quella sala di ogni congresso locale saremo tutti uguali.

  104. A parte chi verrà eletto dai vari capo-corrente…quelli son più uguali di qualcunaltro

  105. Caro Anonimo 3, le tue sensazioni sono pura realtà. Il fatto è che adesso non si può più dare la colpa a Bertinotti o a Vendola…finalmente ognuno si prenderà le proprie responsabilità! Ma devvero esiste qualcuno che può credere che un siffatto progetto possa decollare?? Non scherziamo.

  106. Anonimo 3 Says:

    33, non ti attaccare a me per le tue sparate, che non c’entrano affatto con quello che ho scritto. Il progetto della fed io lo trovo interessante e quindi, come vedi, esiste qualcuno che crede che possa decollare. I miei dubbi, semmai, vertono proprio sugli strani personaggi che sembrano non aver altro da fare che cercare costantemente e sistematicamente di distruggere.
    Buona giornata.

  107. Richi 33 Says:

    Sono un pò confuso……ma sapete tutta la giornata non ho niente da fare che sparare cazzate…..

  108. massimiliano piacentini Says:

    Con la Fiom, sabato 16/10 a Roma

    ciao, Ramon, saluti comunisti

  109. Adesso ci si mettono pure Burgio e Diliberto a dire che la FdS non serve a molto.. (leggere interviste sul Manifesto) ma perchè i nostri dirigenti non parlano chiaro? oppure come scrive Ramon poi votano tutti allo stesso modo mahh sono misteri
    io vorrei chiarezza e non nascondersi dietro un “tutti uniti tutti d’accordo” nella FdS che è assolutamente smentito ad ogni presa di posizione pubblica e non dire che non incide Ramon sui militanti leggere continuamente così tante prese di distanza e strategie così diverse.
    saluti

  110. cara anonimo 3, non lasciarti fuorviare da come si sviluppano le discussioni su internet. il mio scritto è anche troppo lungo ed essendo una disquisizione si presta poco a promuovere una vera discussione. tuttavia penso sia utile parlare di certe cose e soprattutto rimettere con i piedi per terra il significato di certe parole. lo hanno letto in molti (e ringrazio). per me tanto basta. i soliti graffittari da cesso dell’autogrill non mancano. fanno parte del panorama come i semafori. e hanno meno intelligenza dei semafori. non meritano nessuna attenzione.
    quanto alla federazione hai in parte ragione. non c’è entusiasmo.
    del resto non vedo come potrebbe esserci in questo tempo e in questo contesto. ma io sono ultraconvinto che bisogna percorrere questa strada, avere pazienza e perseveranza, e soprattutto non sognare soluzioni magiche o falsi profeti (che producono un entusiasmo effimero e distruttivo della ragione).
    e credo che siamo d’accordo
    un abbraccio

  111. uff richi, preferisci che ci siano opinioni diverse e che poi ci siano decisioni comuni o preferisci che ogni opinione diversa provochi una guerra nucleare e una nuova scissione?

  112. Anonimo 3 Says:

    Mi é piaciuto anche l’editoriale su liberazione.
    Ciao.

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